Un’indagine scientifica pubblicata negli Stati Uniti lo scorso autunno aveva acceso un allarme: in alcuni utensili da cucina in plastica nera erano state rilevate quantità rilevanti di ritardanti di fiamma, sostanze potenzialmente pericolose per la salute. La notizia, rilanciata da testate internazionali con titoli drastici come “Buttate la vostra spatola di plastica nera”, aveva generato timori diffusi. Col tempo, però, lo studio è stato ampiamente ridimensionato a causa di errori di metodo e calcolo, sollevando interrogativi sul modo in cui la scienza viene comunicata e recepita dal pubblico.
Origine dello studio e prime reazioni
La ricerca era stata pubblicata sulla rivista Chemosphere da un gruppo legato a Toxic-Free Future, associazione statunitense che promuove campagne per vietare determinati composti chimici. L’indagine si concentrava sui ritardanti di fiamma, sostanze utilizzate per ridurre la facilità con cui alcune plastiche possono incendiarsi.
Esistono diverse tipologie di ritardanti, molte delle quali soggette a controlli severi in Unione Europea e, in misura minore, negli Stati Uniti. In passato, alcune sono state vietate perché sospettate di danneggiare il sistema riproduttivo, il sistema nervoso o organi come il fegato, se assunte oltre certe soglie di esposizione. Nonostante non vi sia un consenso definitivo sugli effetti sugli esseri umani, le autorità stabiliscono limiti di sicurezza per minimizzare ogni rischio.
Nella produzione di utensili da cucina, l’uso di ritardanti di fiamma non è necessario. La loro presenza, secondo i ricercatori, poteva essere legata all’impiego di plastica riciclata proveniente da apparecchiature elettroniche, spesso di colore nero e, in passato, trattate con queste sostanze.

Per verificare l’ipotesi, il team acquistò 203 prodotti in plastica nera, tra cui spatole, mestoli, contenitori e giocattoli. Dopo una prima analisi, ne selezionò 20 con un’alta presenza di bromo, elemento chimico usato nei ritardanti bromurati, e concentrò le indagini sul BDE-209, vietato da anni nell’UE per i materiali a contatto con gli alimenti.
Il risultato evidenziava la presenza di ritardanti in 17 dei 20 campioni esaminati a fondo, ma i dati furono fraintesi da molti media, che parlarono di un 85% di contaminazione senza chiarire che la percentuale riguardava solo i campioni selezionati, non l’intero lotto. Così la percezione del problema apparve ben più grave di quanto rilevato.
Errori nei calcoli e revisione dei dati
Per valutare i rischi, i ricercatori stimarono l’esposizione basandosi su un precedente studio in cui frammenti di utensili erano stati immersi per 15 minuti in olio bollente. Uno scenario poco realistico per l’uso domestico.
Lo studio concluse che una persona di 60 kg potesse assorbire 34.700 nanogrammi di BDE-209 al giorno usando utensili in plastica nera, valore ritenuto vicino al limite di 42.000 nanogrammi fissato dall’Agenzia statunitense per la protezione ambientale (EPA). Ma il dato si rivelò errato: il limite, calcolato moltiplicando 7.000 nanogrammi/kg per 60 kg, era in realtà 420.000 nanogrammi. Un errore di uno zero, scoperto dal chimico Joe Schwarcz e dal divulgatore Ruggero Rollini, cambiava completamente la proporzione tra esposizione e soglia di sicurezza.
Una correzione arrivò tardi, quando ormai la notizia aveva fatto il giro del mondo. Nei mesi successivi emerse un secondo errore di calcolo, che riduceva ulteriormente l’esposizione stimata a meno del 2% della soglia di riferimento. A quel punto, parte della comunità scientifica chiese il ritiro dello studio, giudicandolo poco affidabile.
Nonostante ciò, sui social circolano ancora video e post che consigliano di evitare utensili in plastica nera, alimentando timori infondati. In realtà, nell’UE la produzione e la vendita di materiali a contatto con alimenti (MOCA) seguono regole precise: la plastica riciclata può essere impiegata solo se proviene da materiali già destinati all’uso alimentare o se prodotta con tecnologie approvate dall’EFSA. Ciò rende improbabile la presenza di quantità significative di plastiche provenienti da dispositivi elettronici.
In sintesi, la vicenda dimostra come un errore di metodo, amplificato da una comunicazione imprecisa, possa trasformare un’ipotesi di rischio in un allarme ingiustificato, con effetti duraturi sull’opinione pubblica.