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Dell’identità di Elena Ferrante non ce ne frega assolutamente niente

“lo Strega di Pulcinella”: era il 16 febbraio 2015

 

Di nom de plume utilizzati per le ragioni più diverse è piena la storia della letteratura: nella nostra epoca il più importante era quello di Elena Ferrante. Almeno fino a ieri, quando Claudio Gatti, in un’inchiesta pubblicata in contemporanea sul Sole24Ore e altre testate internazionali – pezzo integrale sul suo blog – ne ha svelato il nome. L’autrice de L’amica geniale e degli altri romanzi della saga sarebbe dunque la traduttrice e collaboratrice delle edizioni E/O Anita Raja.

Gatti avrebbe individuato la Raja come Elena Ferrante in virtù dei compensi ricevuti negli scorsi anni, compensi impensabili per una traduttrice, ma plausibili per una scrittrice di best seller.

Non che fosse una notizia in senso assoluto, nel senso che da tempo il nome della Raja era in cima alla lista indiscreta delle potenziali elene ferranti, ma il lavoro di Gatti è la tessera in più nel mosaico, forse quella finale.

Al solito però più della notizia, è interessante la reazione alla notizia.

 

Anita Raja, ovvero Elena Ferrante?

 

Diciamo che possiamo dividere le fazioni in questa maniera: gli indignati per l’eccesso di zelo di un’inchiesta che mirava a scoprire quella che in fondo era – ed è – una notizia. Una storia, qualcosa che prima molti non sapevano e ora sanno, insomma: uno dei motivi per cui si fanno i giornali, li si comprano, li si trovano in edicola, ci si clicca sopra online.

E dall’altra parte, contrapposti agli indignati, gli “è la stampa, bellezza” sostenitori al contrario della bontà del lavoro giornalistico di Claudio Gatti, non proprio l’ultimo arrivato, con il sottotesto “Insomma, vendi milioni di copie in tutto il mondo e cerchi di mantenere un improbabile anonimato?“, è normale che la cosa stuzzichi chi vuole tirare fuori uno scoop.

Dove sta il giusto tra le due parti? Da nessuna e da entrambe.

Elena Ferrante spiegava la sua richiesta di restare dietro le quinte e di non apparire in questa maniera, con “un desiderio di autoconservazione del proprio privato, un desiderio un po’ nevrotico di intangibilità, di mantenere una certa distanza e non prestarsi ai giochi giornalistici che tipicamente spingono gli scrittori a mentire per apparire come ritengono che il pubblico si aspetti” – e ancora – “[Elena Ferrante è] fermamente convinta che i suoi libri non necessitino di una sua foto in copertina né di presentazioni promozionali: devono essere percepiti come “organismi autosufficienti”, a cui la presenza dell’autrice non potrebbe aggiungere nulla di decisivo“. Tutto giusto.

Forse un pochino pomposo, forse un po’ troppo solenne, ma va a sensibilità e a gusti personali e va benissimo, ci sta. Eccezion fatta che Elena Ferrante vive e risponde sempre nel paradosso: mente sempre, è lei stessa ad affermarlo, il suo è un “Tutti i cretesi sono bugiardi, io abito a Creta” vivente, continuo, indecifrabile. È bello così. La domanda successiva da farsi infatti è se sia una scelta realistica, una decisione quella dell’anonimato totale plausibile da mantenere per una scrittrice di best seller del 2016. Forse no.

Da rispettare, certo, principalmente perché per molti era proprio lì il bello, nel mistero, nell’immaginare, nel sognare. Vengono in mente almeno un paio di altri autori che avevano scelto di, nell’ordine: sparire, far parlare solo l’opera, far tacere l’autore, far sognare i lettori e allo stesso tempo lasciare impennare i fatturati degli editori. Anche e proprio in virtù di quella scelta di autoescludersi, di cancellarsi per vivere solo nel testo.

Una scelta quella della Ferrante che a me ricorda quella di altri due leggendari “timidi” della letteratura: J.D. Salinger e Thomas Pynchon.

Di loro però conosciamo almeno i nomi, di loro esiste qualche vecchia foto, qualche frammento da reimmaginare, mentre della Ferrante fino a ieri non esisteva nemmeno quello – o meglio, esisteva eccome: già nel febbraio 2015 su Dagospia… –  e direi che la cosa andava bene a tutti, perché? Perché in fin dei conti, non gliene fregava niente a nessuno.

Né ai lettori delle opere della Ferrante, né ad altri. Esattamente come dell’inchiesta di Gatti, che andando a grattare sotto la superficie dell’indignazione social che durerà due giorni, nulla aggiunge e nulla toglie al piacere di leggerli quei libri.

Viene in mente Salinger infuriato con il fotografo, o Pynchon in divisa da marinaretto, o poco più giovane ancora, in una foto di classe. Concentriamoci su Pynchon: già dagli anni ’60 e dal successo di V. Pynchon si era fatto sempre più elusivo, fino a sparire quasi completamente.

Fatta eccezione per qualche apparizione leggendaria come quella nei Simpson nel ruolo di se stesso, con un sacchetto di cartone in testa.

Ecco, Elena Ferrante nei Simpson a questo punto mi sembrerebbe l’epilogo migliore. Anzi: facciamo in una puntata di Gomorra, ancora meglio.

Gabriele Ferraresi

Lavoratore intellettuale salariato

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