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Ecco i disegni a matita da cui è nato il mito di Super Mario Bros

Lo storico design della schermata di inizio

 

Shigeru Miyamoto e Takashi Tezuka avevano rispettivamente 33 e 25 anni quando idearono il titolo che cambiò per sempre la storia dei videogiochi: Super Mario Bros.

Fino ad oggi non mi sono mai chiesto come effettivamente si inizi a pensare un videogioco del genere, mi sono sempre figurato la programmazione come una sorta di magia nera che qualche esperto riesce a usare per trasformare dei numeri in immagini che si possono giocare.

La verità è che, prima ancora della programmazione, qualcuno deve immaginare il mondo in cui mettere il videogiocatore: questo è il lavoro per il quale i due artisti furono impiegati dalla Nintendo nei primi anni ’80. Ma cosa dovevano effettivamente fare? Riempire fogli millimetrati con disegni a pastello di livelli, ostacoli, mattoni e nemici da schiacciare.

Accortisi delle potenzialità creative che implica la fase di progettazione di un livello, quelli della Nintendo hanno recentemente deciso di pubblicare Super Mario Maker, un gioco per Wii U nel quale il pubblico disegna i livelli da superare.

Presentando questo nuovo titolo all’E3 del 2015, Shieguru e Takashi hanno mostrato i fogli sui quali, più di trent’anni fa, hanno letteralmente disegnato il primo Mario Bros.

Così Super Mario, emblema della cultura digitale, è nato su dei fogli millimetrati, della carta da lucido sovrapposta per eventuali modifiche e tante frecce disegnate, nessun software all’inizio di tutto.

Forse è proprio per questo che il gioco ha vinto. Questo inizio ha obbligato i designer alla semplicità che ne è stata poi la fortuna. Parlando del successo del suo gioco in un’intervista, Miyamoto ha riconosciuto che le azioni in Mario sono qualcosa di innato in tutti gli uomini, ovunque. Tutti hanno paura di cadere da un punto alto; se c’è un buco da superare, chiunque prende la rincorsa e prova a saltarlo. Queste cose sono sostanzialmente umane, sono un’esperienza condivisibile da praticamente tutti”.

 

 

[via ArchDaily]

Pietro Raimondi

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