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Tutta Milano in 10 “FIE”

Ray Banhoff è un nostro collaboratore, nonché uno dei nostri fotografi preferiti ed è diventato un caso nazionale. Lo hanno chiamato in tutti i modi, ma quello più usato è stato guardone. Dal Rolling Stone a Dagospia, passando per Elle e Repubblica, tutti si sono dedicati al suo progetto, Fie.

Già dal titolo potete intuire cosa contraddistingue il progetto dello street photographer toscano trapiantato a Milano: i suoi scatti hanno come soggetto donne di Milano, e sono realizzati col cellulare, in pratica rubati. Si colloca in quel limbo in cui navigano a vista perversione, violazione della privacy, compulsione, urgenza, arte, documento e bellezza.

Fie, si capisce, in dialetto labronico vuol dire fighe. Bene, Ray per due anni ha fotografato le fie a Milano sui mezzi pubblici, nei centri commerciali, in strada, un po’ ovunque. Foto frontali, fatte di rapina, oppure da dietro, fino ad arrivare a fotografare sotto la gonna, come i veri maniaci.

Ne ha scattate più di tremila, tutti i giorni, prima di raccoglierle in un book in edizione limitata curato da Toni Thorimbert che ha presentato il 28 ottobre presso la Biblioteca della Moda di Milano.

Gli abbiamo chiesto di selezionare le sue 10 foto preferite e di parlarcene, in modo da entrare nella sua testa e capire un po’ meglio cosa c’è dietro il progetto che l’ha trasformato nel voyeur più famoso del momento.

 

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Quando ho fatto questa non ci credevo nemmeno io. Decisi subito che sarebbe stata la copertina o quasi. Era come un’immagine archetipica, un culo che nasceva dal cemento. Ecco, vengo accusato di essere un voyeur, ma davvero vorrei capire come potevo fare a non vedere una cosa del genere.

 

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Una delle mie preferite in assoluto. Erano i primissimi tempi che scattavo frontalmente i soggetti. Nell’inquadratura ci sono solo donne, anche se apparentemente si nota solo la ragazza a sinistra. A molti non dirà niente un’immagine del genere, per me è tutto quello per cui mi svegliavo la mattina. Cogliere un attimo, uno sguardo, la giovinezza, l’occasione, il suo volatilizzarsi. Ci vedo tutto dentro.

 

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Mi ricorda mia zia Licia e Meryl Streep. Il suo aspetto austero, antico, di un film degli anni ’80 mi rassicura. La foto è mossa, aveva fretta lei e avevo fretta io, ai tempi vivevo in San Gottardo e alla fermata avevo paura di farmi sgamare quindi mi tremava la mano. Qui c’è la mia paura ma anche la mia necessità. Dovevo fare questa foto. a tutti i costi. Del giudizio o dell’etica non me ne fregava nulla, finalmente.

 

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Qui siamo in una fase diversa, quasi in calando del lavoro. Non avevo più bisogno di avvicinarmi di andare sotto le gonne, ormai da qualsiasi posizione, da qualsiasi distanza e con qualsiasi mezzo, ogni volta lo scatto per me era significativo. Amo tantissimo questa foto, non so nemmeno io quale sia la ragione, mi sembra il riassunto di tutto. So che Craxi aveva un appartamento nell’edificio dove questa foto è stata scattata e questo è un dettaglio che non c’entra niente, ma che carica ancora più di mistero e trasporto questa immagine ai miei occhi.

 

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Stesso discorso di cui sopra. Amo la luce, faccio le fotografie perché amo la luce. Questa per me sarà una delle immagini di Milano che mi porterò dietro per sempre. Dramma e fretta, eros e morte.

 

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Questa foto e tutta la serie di foto sotto le gonne me l’ha ispirata un mio amico con cui condividevo le immagini. Le chiamava droni. Io le avevo rinominate droni ficali. Qui era più che altro il desiderio di essere onnipotente, di non aver paura di niente. Se ho il coraggio di fare questo posso fare tutto nella vita. Le ho fatte per questo più che altro.

 

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Questa non sembra quasi una foto mia perché è così precisa. Mi stupii di me stesso, di quanto ero stato preciso.

 

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A volte come in questo caso una foto mi ha cambiato l’umore. passavo una giornata di merda, depresso, al lavoro, schiacciato come tutti. Poi facevo una foto ed ero felice. Questa è una di quelle volte.

 

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Per me lei era bellissima.

 

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Bukowski ha scritto che la gente è il più grande spettacolo che esiste e che non importa nemmeno pagare il biglietto. Lei per me era questo. Parlava da sola, inveiva, si arrabbiava. La aspettavo quasi al mattino al bar di fronte alla fermata, era un film.

Simone Stefanini

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Simone Stefanini

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