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Livin’ on a Prayer dei Bon Jovi: compie trent’anni l’inno più tamarro del rock

I Bon Jovi negli anni ’80

 

Il 31 ottobre del 1986 veniva pubblicata Livin’ on a Prayer dei Bon Jovi. Prodotta da Bruce Fairbairn per l’album Slippery When Wet, il singolo è diventato triplo platino vendendo 3.400.000 copie ed è ad oggi una delle canzoni più conosciute della band (e stiamo parlando di un gruppo che di hit ne ha messe a segno parecchie).

Livin’ on a Prayer racconta la storia di una giovane coppia (Tommy e Gina) che per colpa dei soliti lavori sottopagati (lei fa la cameriera, lui lavora al porto) fatica a stare insieme. È una favola moderna dove l’amore diventa l’unica speranza e il motore che con cui aggiustare tutto (e tanti buoni sentimenti di contorno).

 

Nonostante suoni rockettara, Livin’ on a Prayer è uno dei migliori esempio di canzone pop americana: trasmette un messaggio generazionale e al tempo stesso un senso di rivalsa potentissimo. In più è fatta apposta per caricarti a molla con lo scopo di farti esplodere nel ritornello e, mai ci fosse il bisogno di sottolinearlo, è tamarrissima. Ma guardiamo il videoclip.

 

Fuochi d’artificio, musicisti che volano e uno stadio pieno che canta all’unisono. Ora cercate di ricordarvi la prima volta che voi avete sentito questa canzone dal vivo: probabilmente era un pub di provincia e sul palco c’era una cover band di musicisti più o meno accordati tra loro e dalle dubbie qualità artistiche. La differenza tra queste due immagini la capite da soli.

Livin’ on a Prayer è una canzone piuttosto difficile da suonare e, soprattutto, da cantare. Normalmente la prima parte fila abbastanza liscia ma, quando il cantante di turno deve salire di tono in quel “Woah, livin’ on a prayer”, è sempre un disastro. A volte si risolve il problema girando il microfono verso il pubblico sperando che parta un coro ma, molto spesso, non si fa che peggiorare la situazione.

Oppure si può modificare direttamente il ritornello facendo finta che sia un arrangiamento più intimo e toccante. I peggiori sono quelli che trasformano in una canzone indie-folk dove l’unica cosa che conta è il sentimento.

Livin’ on a Prayer è una canzone tamarra e va onorata in quanto tale. È una delle canzoni più sadiche della storia del rock: ti fa credere che prima o poi anche tu diventerai una rockstar ma ti abbandona appena ti avvicini al microfono. Non è, non sarà mai una canzone adatta per una cover band. Peggio ancora per chi fa piano bar. E questo Jon Bon Jovi questo lo sa bene.

Livin’ on a Prayer è la quintaessenza del pop. È entrata nell’immaginario collettivo di tutti perché chiunque – anche il più snob – vorrebbe un giorno cantare davanti ad uno stadio pieno e con alle spalle i fuochi d’artificio che saettano.

In questi trent’anni è diventata un vero e proprio inno del rock più tamarro, al punto da essere anche una delle canzoni più odiate e meno sopportate, con il suo splendido mix di cafonaggine, pop da classifica e capelli cotonati. Ci sembra però giusto chiudere con la migliore versione che abbiamo mai ascoltato.

Sandro Giorello

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