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Uccisi da Airbnb o sfruttati da Uber, morire ai tempi della sharing economy

La notte di Halloween nelle catacombe di Parigi

 

La sharing economy è quel fenomeno per cui ti sembra di condividere tutto. Ti serve un’auto? Uber (dove si può). Ti serve un appartamento? Airbnb. Vuoi conoscere qualcuno? Tinder e Grindr. Sembra tutto facile, ma non è sempre così. In un lungo articolo pubblicato su Matter, il giornalista Zak Stone racconta un incidente capitato alla sua famiglia, con cui aveva preso un cottage in affitto su Airbnb. Il padre ha provato un’amaca in giardino. Il ramo a cui era appesa si è spezzato, colpendolo in testa. È morto poco dopo in ospedale.

La storia di Stone è un caso estremo, ma ha suscitato una valanga di domande sulla sicurezza dei servizi di sharing. Spesso non facciamo caso a quello che c’è dietro app e servizi sviluppati dalle aziende della Silicon Valley. Per esempio, il Safety Check attivato da Facebook durante la strage di Parigi per far sapere quali utenti erano al sicuro era stato pensato per situazioni completamente differenti.

Tornando al caso di Stone, è giusto fidarsi di un servizio come Airbnb solo perché le recensioni di chi lo utilizza sono super ottimiste? Le tariffe per affittare una stanza sono più basse rispetto a quelle degli hotel, ma è probabile che questo ribasso nasconda la mancanza di sicurezza. Dopo tutto, gli host che mettono le proprie case a disposizione sulla piattaforma non devono garantire alcuno standard di qualità.

I servizi di sharing sembrano uno scambio alla pari tra persone: uno mette a disposizione la sua stanza, l’altro paga con la carta di credito e lascia una bella recensione. No, questa non è condivisione. Tuttavia, i servizi come Airbnb stanno cambiando il modo in cui viaggiamo, soprattutto perché ci fanno risparmiare e ci mettono in contatto con le comunità locali, aprendo le porte a un nuovo tipo di turismo informato.

Ma perché dovremmo preoccuparci tanto di come funzionano Airbnb, Uber e simili? Perché faranno sempre più parte delle nostre vite. Secondo le stime dei consulenti di Pricewaterhouse Coopers, il giro di affari della sharing economy crescerà fino a raggiungere i 335 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Ma tutta questa ricchezza non finirà nelle tasche degli utenti.

 

A giugno 2015 i tassisti hanno protestato contro Uber a Parigi

 

Uber – l’app che permette di trovare auto con autisti privati – è stata spesso criticata per il suo modello di business, in cui i guidatori lavorano a tempo pieno senza essere dipendenti dell’azienda. Oltre a provocare l’ira dei tassisti, il servizio ha suscitato molte critiche sul fatto che la sharing economy stia cancellando diritti e tutele nel mondo del lavoro. Siamo sicuri che il nuovo sistema sia meglio del vecchio? In Italia, l’Antitrust ha stabilito che il governo deve regolare Uber e i servizi simili: staremo a vedere se sarà un buco nell’acqua.

Se i freelance sono destinati a diventare i nuovi quasi-dipendenti delle grandi aziende della Silicon Valley, forse è il caso di rivendicare più diritti. O di costruire nuove piattaforme di sharing dei servizi e gestirle in modo indipendente. Può esistere un Uber gestito dai tassisti? O un Airbnb dove le tasse di servizio sono investite nei quartieri delle città?

Le aziende della sharing economy spesso scaricano le proprie responsabilità. Quello che è successo al padre di Zak Stone, potrebbe succedere a un passeggero di Uber o BlaBlaCar. La colpa di un incidente è di chi guida l’auto, ma le aziende che ti mettono in contatto con utenti poco affidabili dovrebbero essere tirate in ballo. Bisogna pretendere di più dai servizi di sharing. Ma come si fa a dialogare con una azienda che ha la sede legale nella Silicon Valley, a migliaia di chilometri da casa nostra?

 

Lorenzo Mannella

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