Le strane affinità tra l’arresto di Fabrizio Corona e i racconti di Edgar Allan Poe

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Ormai lo sanno anche i muri e soprattutto i controsoffitti: Fabrizio Corona è stato rispedito in carcere, in arresto perché secondo gli inquirenti avrebbe nascosto un tesoro di 1,7 milioni di euro al fisco dentro un controsoffitto, murandoli al suo interno. Insieme a lui, in manette anche la sua collaboratrice e prestanome Francesca Persi, che gli faceva da manager procacciandogli le date nei locali.

Dalle carte del suo arresto, come riportato dal Corriere della Sera, si evince una particolarità che subito mi ha portato alla mente alcuni racconti Edgar Alla Poe in cui è il criminale a diventare paranoico e, più o meno inconsciamente,  a svelare agli inquirenti la soluzione del giallo.

Secondo la ricostruzione infatti, a fine agosto la Persi chiama Corona dicendogli che i ladri le sono entrati in casa armati di piccone e hanno spaccato tutto, Lui inizia a incalzarla con le domande, sempre più nervose: “L’hanno preso? Hanno spaccato i muri?” . Lei tenta invano di rassicurarlo. “Giura!” insiste Corona.

La telefonata però è stata ascoltata dalla Procura di Milano, che aveva posto il suo telefono sotto intercettazione dopo che il 16 agosto, l’ex re dei paparazzi si era ritrovato una bomba carta sotto casa. Gli inquirenti vogliono vederci chiaro, non riescono a capire perché Corona sia diventato vittima di una possibile estorsione dal 50.000 €. Vittima finché non si è incastrato da solo. Secondo gli investigatori, oltre ai 1,7 milioni di euro, ci sarebbero altri conti sospetti in Austria, in cui la Persi ha portato i contanti durante numerosi viaggi oltre confine. Fine della storia, Corona sembra a tutti gli effetti essere un bandito professionista che ha utilizzato i suoi giorni fuori dal carcere per delinquere.

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Eppure quella telefonata, quella domanda didascalica “L’hanno preso? Hanno spaccato i muri?” sembra davvero la confessione dell’anonimo protagonista de Il cuore rivelatore di Poe. Vi ricordate?  Il protagonista uccide il vecchio avvocato con cui divide la casa perché terrorizzato dal suo occhio morto, vitreo, che lo guardava sempre. Dopo averlo ammazzato, lo fa a pezzi e lo nasconde sotto le tavole del pavimento. Qualcuno però sente le grida del vecchio e chiama la polizia. L’assassino, convinto di non essere scoperto, dice agli inquirenti che il vecchio è in viaggio e che  le urla erano dovute a un incubo. I poliziotti se ne stanno per andare quando a lui sembra di sentire il battito del cuore provenire dal pavimento e impazzito urla “Confesso ogni cosa. Ma togliete, togliete quelle tavole, scoperchiate l’impiantito! È là. È là sotto! È il battito del suo terribile cuore!”

Sembra quasi che Corona si sia lasciato ispirare anche da Il Gatto nero, uno dei più famosi racconti di Poe che nel 1843 scriveva di un assassino paranoico che uccide la moglie, colto da un raptus mentre lei tenta di difendere il loro gatto, che l’uomo vuol punire. In seguito mura il cadavere della moglie in cantina e quando arriva la polizia, tranquillo del suo nascondiglio li lascia ispezionare la casa. “Signori, sono lieto di aver placato i vostri sospetti. Auguro a tutti voi buona salute, e un po’ più di cortesia. Tra parentesi, signori miei, questa è una casa molto ben costruita, potrei anzi dire costruita in modo eccellente. Questi muri ‐ ve ne andate, signori? ‐ questi muri sono solidamente fabbricati” dice alla polizia, picchiando col bastone sul muro che nascondeva il cadavere. Il gatto, murato vivo per errore insieme alla moglie, emette un lamento e lo fa scoprire.

 

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La morale non è quella che non si scappa dalla legge, bensì quella che se ti hanno già preso, probabilmente non si fidano di te e ti stanno col fiato sul collo aspettando una mossa falsa. “L’hanno preso? Hanno spaccato i muri?” ha condannato Corona e la Persi al carcere, e come direbbe Poe:

Essi udivano, essi sospettavano, essi sapevano, eppure si divertivano allo spettacolo del mio terrore, così almeno mi parve e lo credo tuttavia. Ma ogni cosa sarebbe stata da preferirsi a quella orribile derisione. Io non mi sentivo, ormai, di sopportare oltre quelle loro ipocrite risa. Sentii che dovevo gridare o morire.”

 

Simone Stefanini

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