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Gaetano Scirea: un uomo, un campione

Parlare di Gaetano Scirea oggi, a trent’anni esatti dalla sua tragica scomparsa a causa di un incidente stradale avvenuto in Polonia, non è facile. Non è facile perché, seppure non siano passati tutti questi anni, inquadrare la parabola umana prima che da calciatore di Scirea nel 2019 è come analizzare la vita di un cavaliere medioevale, di un fine artista del Rinascimento o, anche di uno scienziato dell’Illuminismo.

Scirea è innanzi tutto un figlio dell’integrazione che, nonostante un sacco di intoppi e ritardi, in Italia, si è concretizzata tra gli anni Cinquanta e Sessanta nel secolo scorso, visto che Gaetano nasce nel 1953 a Cernusco sul Naviglio, hinterland di Milano quindi, da papà siciliano e mamma lombarda. Figlio dell’emigrazione perciò, Gaetano cresce in una famiglia modesta dove la madre è casalinga e il padre operaio della Pirelli. Eppure leggendo e osservando le rare interviste che Scirea ha rilasciato alla televisione, quell’educazione proletaria e piccolo borghese ha attecchito nel giovane calciatore, che sin dalle prime apparizioni come atleta, dimostra più anni di quelli che ha. Non tanto a causa del volto, quel volto che per dirla alla Paolo Conte dotato di un “naso triste come una salita” quanto per il modo di stare in campo e, forse, di comportarsi nella vita.

Scirea è infatti uno dei tanti gioielli che negli anni l’Atalanta tira fuori. Tra il 1967 e il 1972 gioca con gli orobici ma per gli appassionati e gli addetti ai lavori è come vedere un giocatore del futuro: senza mai atteggiamenti sopra le righe, ma con un’attenzione e un’abnegazione senza pari, il giovane Scirea è già in grado di guidare perfettamente, con una leadership che si direbbe “dolce ma decisa”, la difesa di una squadra che si affaccia alla Seria A, con una maturità incredibile vista l’età. Ma non finisce qui.

Infatti è un giocatore del futuro perché, esattamente come non si stanca mai di ripetere Lele Adani nelle telecronache odierne, “è dotato di pieni sopraffini, di una visione di gioco ampia che gli permette di sganciarsi in avanti e di un cuore grande così”. Scirea infatti, al contrario del classico difensore centrale italiano degli Settanta, tutto ruvidezze e contrasti, ha un tocco di palla felpato, è dotato di un ottimo lancio e sa inserirsi. E infatti se ricordate bene l’azione del leggendario 2-0 dell’Italia alla Germania Ovest durante la finale del Mondiale del 1982 ad avviare il gol dell’urlo di Tardelli sarà proprio Scirea, con uno dei suoi micidiali “sganciamenti”. Senza la carica di liberazione dei costumi dei calciatori olandesi propugnatori del “calcio totale” e senza la cinica fierezza del “Kaiser” Franz Beckenbauer, Scirea ha incarnato quella “terza via” del calciatore senza fronzoli e senza bisogno di dimostrare con comportamenti particolari il suo status di leader.

Ecco perché diventerà una colonna portante della Juventus pluriscudettata e iper-vincente di Trapattoni nonché dell’Italia: perché era un uomo, prima ancora che un giocatore, insostituibile in quell’intricata rete fatta di rapporti umani, gelosie e amicizie di cui è fatto uno spogliatoio di una squadra di calcio. Eppure, quasi come se quel suo sguardo al contempo calmo e un po’ triste sapesse già tutto, con Scirea non si discuteva mai: al massimo ci si sedeva a tavola e tra un bicchiere di vino e una partita a scala quaranta si appianava ogni tipo di tensione.

In tempi in cui il chiacchiericcio ci sovrasta, l’esempio di Gaetano Scirea, la sua compassata eleganza dentro e fuori dal campo, sono davvero un ottimo esempio per le nuove generazioni (ma anche noi con qualche anno in più sulle spalle): non tanto dal punto di vista squisitamente calcistico ma anche e soprattutto dal punto di vista umano.

Mattia Nesto

Fa che la morte mia, Signor, la sia comò 'l score de un fiume in t'el mar grando

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