Arrivano aumenti per le pensioni minime nel 2026, ma saranno in molti a essere tagliati fuori. Ecco cosa prevede la nuova manovra.
Nel 2026 le pensioni minime torneranno a crescere, anche se l’aumento previsto (di circa 20 euro al mese) non interessa l’intera platea dei pensionati.
Una misura che, pur confermando l’intenzione del governo di sostenere le fasce più deboli, riapre il dibattito sulle disuguaglianze srutturali del sistema pensionistico italiano, in particolare tra chi gode del vecchio sistema retrobuitivo e chi invece si trova interamente nel regime contributivo.
Pensioni 2026, cosa prevede la nuova manovra
La Legge di Bilancio 2026, approvata dal Consiglio dei Ministri e ora all’esame del Parlamento, introduce un ulteriore adeguamento del trattamento minimo dell’INPS. Dopo l’aumento straordinario del 2025 che aveva già portato la pensione di base a 615 euro al mese, la nuova misura fissa un nuovo incremento di 20 euro, portando l’importo vicino ai 635 euro al mese.
Si tratta di un intervento che si somma alla rivalutazione automatica legata all’inflazione e che garantisce una (lieve) boccata d’ossigeno ai pensionati con assegni più bassi. Ma, come spesso accade, la reale portata del provvedimento è più selettiva di quanto si pensi.
L’incremento delle pensioni non si applica infatti a tutti, ma solo a quelle categorie che ristpetano precisi requisiti reddituali e contributivi. A beneficiare del nuovo adeguamento saranno i percettori di pensioni calcolate con il metodo misto o retributivo, ovvero coloro che possono far valere almeno un contributo versato prima del 1° gennaio 1996.

Per i cosiddetti “contributivi puri“, cioè coloro che hanno iniziato a lavorare e versare contributi dopo il 31 dicembre 1995, non è previsto alcun aumento. Per ressere chiari, anche se le loro pensioni dovessero rivelarsi molto basse non avranno diritto all’integrazione al minimo. Principio che, secondo molti esperti di previdenza, non fa che acuire le disparità generazionali.
Il meccanismo contributivo
Nel sistema attuale, la pensione si calcola sulla base dei contributi effettivamente versati durante l’intera carruera lavorativa. Ogni anno i versamenti confluiscono in un “montante contributivo” rivalutato nel tempo in base all’inflazione e convertito in rendita attraverso coefficienti di trasformazione.
Il risultato è strettamente proporzionale a quanto si è guadagnato e a quanto a lungo si ha lavorato. Di conseguenza, con 20 anni di contributi e stipendi medio bassi l’assegno pensionistico resta inevitabilmente modesto, spesso inferiore alla soglia minima, soprattutto se si lascia il mondo del lavoro prima dei 67 anni.
L’aumento di 20 euro al mese non risolve certo le criticità del sistema ma è da intendersi come segnale politico e sociale. Serve a compensare (almeno in parte) la perdita del potere d’acquisto generato dall’inflazione e sostenere chi vive con importi al limite della sussistenza.
Ma la mancata estensione ai contributivi puri rischia di creare una nuova frattura lasciando fuori intere generazioni di lavoratori che hanno versato regolamente ma con redditi troppo bassi per costruirsi una pensione dignitosa.