In un contesto geopolitico sempre più complesso, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha intrapreso un duplice viaggio diplomatico, prima in Tunisia e subito dopo in Turchia, per rafforzare le collaborazioni strategiche su energia, flussi migratori e stabilità regionale.
Questi incontri si collocano in una fase delicata, segnata da tensioni internazionali e da un aumento degli sbarchi provenienti dal Nord Africa e dal Mediterraneo.
Meloni in Tunisia e Turchia: energia e immigrazione al centro del dialogo
La prima tappa della premier è stata Tunisi, dove il confronto con il presidente Kais Saied si è concentrato sul piano Mattei, un progetto che mira a intensificare la cooperazione energetica tra i due Paesi. Tuttavia, il nodo cruciale dei colloqui è stato rappresentato dai flussi migratori, un tema che Meloni intende affrontare anche durante il vertice con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan a Istanbul. La collaborazione tra Italia e Tunisia viene definita “eccellente”, come dimostrato dal calo progressivo degli sbarchi tunisini, e si punta a consolidare l’impegno comune contro le reti criminali di trafficanti, promuovendo al contempo vie legali di migrazione.
In controtendenza, però, si registra un aumento degli arrivi dalla Libia, che ha contribuito a un +9,15% degli sbarchi complessivi al 31 luglio 2025 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La stabilizzazione della Libia potrebbe quindi diventare un tema centrale nel dialogo con Erdoğan, il cui ruolo è considerato cruciale anche sul fronte africano.
Le opposizioni italiane non hanno mancato di criticare la gestione governativa del dossier migranti: la segretaria del PD Elly Schlein ha denunciato il blocco di una nave commerciale con 90 sopravvissuti di un naufragio nelle acque tunisine, chiedendo un intervento immediato per garantire assistenza sanitaria e un porto sicuro. Critiche simili sono state espresse da Riccardo Magi di Più Europa, che ha definito la situazione “intollerabile”.

Parallelamente ai temi migratori, si infiamma il dibattito sul Medio Oriente, dove la guerra in corso e il conflitto israelo-palestinese restano al centro dell’attenzione diplomatica. Il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul ha aperto la strada a un possibile cambio di rotta, affermando che il riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Berlino dovrebbe avvenire “al termine di un processo negoziale che deve iniziare ora”. La Germania, pur non aderendo al riconoscimento immediato come la Francia, manifesta un crescente isolamento verso il governo Netanyahu, particolarmente sotto pressione per la gestione della crisi umanitaria a Gaza.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di fine settembre si profila come un passaggio cruciale per questa vicenda. Intanto, altri Paesi europei come Portogallo, Belgio, Finlandia e Svezia mostrano segnali di adesione al riconoscimento, mentre il Canada è il terzo membro del G7 a compiere un passo concreto in questa direzione. L’Italia, guidata da Meloni, rimane tra i Paesi più cauti in Europa sul tema. La politica estera americana si mantiene ferma al fianco di Israele, con Donald Trump che ha criticato duramente il riconoscimento palestinese, associandolo a un sostegno a Hamas e legandolo a questioni commerciali come i dazi.