In Italia, oltre 400mila bambini soffrono di disturbi primari del linguaggio, una condizione che li costringe a vivere un silenzio imposto, non scelto, con pesanti ripercussioni sulla loro vita sociale e scolastica.
Gli esperti lanciano un allarme chiaro: è indispensabile una diagnosi precoce, soprattutto in età prescolare, per evitare conseguenze gravi e durature.
La finestra critica dei primi 36 mesi per la diagnosi precoce
Secondo dati recenti, il 15% dei bambini tra i 2 e 3 anni parla poco o nulla, e per circa un quarto di questi piccoli il disturbo si tradurrà in difficoltà scolastiche, isolamento sociale, ansia e depressione in età adulta. Tale disturbo colpisce attualmente il 7% dei bambini in età prescolare, ovvero circa 1 su 14, con numeri stabili da oltre un decennio. Alessandra Sansavini, professoressa di Psicologia dello sviluppo all’Università di Bologna, sottolinea come esistano parametri chiari e scientificamente validati per riconoscere i primi segnali di un disturbo del linguaggio: “Un bambino di 2 anni dovrebbe essere in grado di produrre almeno 50 parole, mentre a 2 anni e mezzo dovrebbe riuscire a combinare almeno due parole per formare le prime frasi”.
Il mancato raggiungimento di queste tappe, insieme alla mancanza di gesti comunicativi come l’indicare entro il primo anno di vita, dovrebbe attivare un immediato allarme fra pediatri, genitori e insegnanti. Il periodo entro i 36 mesi rappresenta una finestra temporale fondamentale: dopo questa soglia, il disturbo tende a cristallizzarsi e le conseguenze diventano irreversibili, compromettendo lo sviluppo linguistico e relazionale. Il Disturbo Primario del Linguaggio (DPL) non si risolve spontaneamente con la crescita, ma evolve in forme più complesse, soprattutto durante l’adolescenza.
Anna Giulia De Cagno, vicepresidente della Federazione Logopedisti Italiani, avverte che oltre il 15% degli adolescenti manifesta difficoltà comunicativo-linguistiche significative. “Più del 60% dei ragazzi con DPL subisce episodi di bullismo”, un dato che illumina un problema sociale di ampie dimensioni. Questi giovani spesso incontrano ostacoli nel comprendere testi scolastici, nello svolgere elaborati scritti, nel decifrare linguaggi metaforici e nell’instaurare relazioni sociali solide. È quindi cruciale che anche le scuole superiori siano sensibilizzate e preparate a riconoscere questi segnali, per evitare che molti adolescenti restino senza diagnosi né supporto adeguato.

La prevenzione e l’intervento precoce passano inevitabilmente dalla formazione e dalla sensibilizzazione di chi è a stretto contatto con i bambini. I pediatri, con le visite di routine, sono la prima linea di difesa: devono monitorare attentamente lo sviluppo linguistico e individuare tempestivamente i “campanelli d’allarme” come la mancata produzione di 50 parole a 24 mesi o l’incapacità di combinare due parole a 30 mesi. Un aggiornamento dei protocolli di screening e dei percorsi formativi dedicati ai professionisti sanitari è indispensabile per migliorare la diagnosi precoce.
Parallelamente, anche insegnanti ed educatori svolgono un ruolo fondamentale, non solo nella scuola dell’infanzia e primaria, ma anche nella secondaria di primo e secondo grado. La capacità di riconoscere le difficoltà comunicative in classe può fare la differenza tra un intervento tempestivo e l’isolamento sociale del bambino o dell’adolescente. Gli insegnanti devono essere formati per individuare i segnali di disturbo primario del linguaggio non diagnosticato, come difficoltà nella comprensione del testo o nella produzione scritta, e per indirizzare le famiglie verso specialisti competenti.
Questo approccio integrato tra sanità e scuola è essenziale per garantire a questi ragazzi un futuro meno segnato dall’emarginazione e dalle difficoltà. La sfida principale resta la tempestività della diagnosi e la consapevolezza diffusa tra pediatri, educatori e famiglie per rompere il silenzio e offrire a questi bambini e adolescenti l’opportunità di una vita più serena e inclusiva.