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4:44 Last Day on Earth, una pellicola apocalittica di Abel Ferrara

 

È finita da poco la 69ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che ha visto la partecipazione di nomi illustri come Kitano, Malick, Anderson, Korine e il vittorioso coreano Kim Ki-duk con il suo “Pietà”. Torniamo, però, per un istante all’edizione precedente della biennale, per parlarvi di una pellicola che, dopo esattamente un anno dalla proiezione vista a Venezia, continua a rimanere impressa nella mia mente, assieme al capolavoro “Kotoko” di Shinya Tsukamoto, vincitore del Premio Orizzonti. Il film in questione è “4:44 Last Day On Earth” di Abel Ferrara. Dopo la partecipazione alla mostra, è caduto nella totale indifferenza, snobbato da parte del circuito di distribuzione italiano. Applaudito dalla platea in sala ma anche preso di mira dalla critica perbenista che in Abel Ferrara trova spesso un bersaglio facile. Il film è stato tra le pellicole più sottovalutate della passata stagione cinematografica.

Realizzato dal regista italo-americano, dopo il docu-fiction “Napoli Napoli Napoli”, progetto concepito con la casa di produzione napoletana “Figli del bronx”, “4:44 Last Day On Earth” propone un tema apocalittico già trattato da Lars Von Trier, nello stesso anno, con “Melancholia” e in passato dal canadese Don McKellar “Last Night” (1998). Il mondo finirà alle 4:44 di notte. Il film narra dell’ultima giornata vissuta da: Cisko (Willem Dafoe), attore ed ex tossicodipendente e Skye (Shanyn Leigh), una giovane pittrice che passa il tempo a dipingere le tele con la tecnica del dripping. A differenza dello spettacolarizzante film di Von Trier, Ferrara ci regala una visione più intima, più familiare. Il suo “last day” sulla terra è una giornata qualunque, è il quotidiano che si ripete, come avviene in una scena del film, dove il ragazzo delle consegne lavora anche nell’ultimo giorno del pianeta e chiede il favore di collegarsi a skype per un saluto finale alla sua famiglia.

Nell’opera di Ferrara le scene ripercorrono le sue ossessioni reali/cinematografiche: l’autodistruzione dell’essere, la religione, il sesso, il corpo. Le sequenze variano dalle riprese di “attesa” che vivono i due protagonisti nell’attico, alle apocalittiche scene, ai frame che invadano lo schermo come in un ultimo “breaking news“ dal mondo. L’ultimo giorno sulla terra di Cisko e Skye trascorre tra sesso, discussioni e addii via Skype con figli, ex mogli e madri. Nel film la comunicazione con l’esterno è “virtuale”, avviene attraverso schermi tv, iPad, i-Phone, MacBook: le tecnologie come un ennesimo confronto uomo/ macchina ma che, in questo caso, sono l’unica fonte di contatto “umano” con i familiari distanti e l’unica finestra sul mondo prossimo alla fine.

Ferrara è ancora in splendida forma-filmica, lo si vede dalle inquadratura, dalla splendida fotografia di una New York che attende in una angosciante atmosfera apocalittica il fatidico momento. Le riprese in esterno di Cisko che, dal loft esce per andare a trovare i suoi amici-pusher nei bassifondi della metropoli, ci restituiscono il Ferrara che conosciamo, l’outsider del cinema americano, quello di film come “Il Cattivo Tenente”, “China Girl”,“Mulberry Street”, “The Addiction”. Il serrato montaggio finale è pura sublimazione visiva. Veniamo travolti dalle immagini di statue religiose, scene di preghiera a La Mecca, un bambino che si avvicina a un cobra per gioco. Tutto scorre davanti ai nostri occhi in un lampo filmico, poi, la luce bianca invade lo schermo e lo spettatore. Ecco la fine, la redenzione, il nirvana.

 

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