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Grazie a 1917 ho capito cosa sia l’eroismo: avere paura di perdere gli altri

Forse non tutto ha funzionato nella macchina comunicativa che si è occupata di 1917, il nuovo film di Sam Mendes e tra i più papabili candidati alla vittoria come miglior film agli Oscar. Già, perché 1917 è stato presentato come una sorta di superba iperbole registica in cui Mendes si è potuto dilettare con il piano sequenza più lungo della storia del cinema (ovvero nessuno stacco di camera, ma una lunghissima inquadratura mobile posta, grosso modo, ora sulle spalle ora davanti ai protagonisti) sullo sfondo di un episodio bellico della Prima Guerra Mondiale, ovvero la battaglia della Somme o, per meglio dire, la ritirata della linea tedesca Hindenburg. Un esercizio di stile, un war-movie costruito a tavolino per impressionare la giura dell’Academy, per farsi consegnare la più ambita delle statuette: ecco come è stato presentato 1917. Beh, neppure a farlo apposta, questa è solo una piccola porzione di come in realtà stiano le cose, neppure così tanto importante.

1917 di Sam Mendes è, tanto per cominciare, un omaggio che il regista di  American Beauty  ha compiuto nei confronti di suo nonno, Alfred Hubert Mendes, che aveva realmente combattuto per due anni sul fronte francese servendo nella 1st Rifle Brigade durante la Prima Guerra Mondiale. È dunque un film nato dagli dagli affetti e proprio di affetti, legami famigliari e, ultimo ma non ultimo, di desiderio di continuare a vivere un minuto in più si parla in questo film.

I due protagonisti, George MacKay, ovvero William Schofielde e Dean-Charles Chapman, che interpreta Tom Blake, sono due ragazzi inglesi imberbi colti nel pieno delle loro giovani vite mentre si sta svolgendo la Storia con la s maiuscola. Infatti, come ricordato prima, il film si svolge lungo le trincee, ora inglesi, ora tedesche, scavate nella Somme, una zona boschiva e agricola della Francia del Nord-Ovest e teatro di una delle più sanguinose serie di battaglie della Grande Guerra.

Ma 1917 non è un film di guerra o, per meglio dire, non è solo un film di guerra. Sì certo ci sono le già citate trincee, gli obici e le baionetta poste sulla punta del fucile, ci sono gli ordini e i dispacci da portare da un ufficiale ad un altro e ci sono le sparatorie tra soldati nemici ma non è questo il fulcro. Il fulcro del film di Mendes è l’eroismo di persone normali gettate in situazioni straordinarie che si può riassumere con una formula: un essere umano coraggioso non è chi non ha paura di morire ma chi teme di perdere gli altri.

Ecco allora che, esattamente come la dedica al nonno del regista. 1917 si declina come un enorme film sull’importanza degli affetti e dei valori umani che rimangono l’unica cosa possibile a cui aggrapparsi mentre tutto intorno a sé pare essere tragedia, dolore e morte. I due protagonisti del film, per motivazioni diverse, avranno proprio questo obiettivo: sopravvivere quella manciata di tempo in più per poter riabbracciare i propri amati. Non è in ballo l’onore, la supremazia di una Nazione sull’altra o, ancora meno, la conquista di una manciata di terra marcia e fangosa in più: niente affatto, quello che conta sono gli affetti umani.

Affetti e rapporti umani che mai come in guerra vengono sottoposti a stress e messi in pericolo. Sia MacKay sia Chapman sono abilissimi, grazie ad una recitazione mai calcata ma sempre discreta, a riportare su schermo le emozioni che due ragazzi di poco più di vent’anni, gettati nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, dovevano provare. Questo pathos umano viene retto e spinto dalla regia di Mendes che, anche grazie ad un sound-design eccezionale (la scena della battaglia aerea è, a livello sonoro, magistrale), lungi dal voler utilizzare virtuosismi tecnici fini a se stessi si impegna, in ogni momento, a consegnarci una visione non soltanto il quanto più verosimile di cosa voleva dire combattere, vivere e morire nelle trincee della Grande Guerra ma anche e soprattutto farci immedesimare nei due protagonisti.

E poi quando si vuole osare, dal punto di vista registico, le scene che vengono fuori sono, letteralmente, da pelle d’oca e fiato sospeso, qualcosa che il montaggio unito al piano sequenza rende davvero sublime. La sensazione di essere dentro ad un videogioco c’è ed è molto forte (God of War sei tu?) ma non sono il fulcro: il fulcro è che, ad un certo punto, si prova esattamente la medesima paura dei protagonisti. Potenza mitopoietica e di immedesimazione dei film fatti bene.

I due ragazzi inglesi hanno un compito semplice e elementare, riassumibile con sfidare il tempo e lo spazio in guerra: debbono attraversare la terra di nessuno tra le trincee inglesi e quelle tedesche per consegnare il messaggio del Generale in capo che arresterà un attacco mortale contro centinaia di soldati, tra cui lo stesso fratello di Blake. Avete visto? C’è la guerra certo ma ci sono anche e soprattutto gli affetti (e se avete letto di questo film che è troppo tecnico e carente dal punto di vista del calore umano beh, evidentemente, ci si è sbagliati di grosso). E questa trama, semplice semplice, è perfettamente funzionale alla regia di Mendes, all’intepretazione dei due protagonisti (oltre ai deliziosi camei di Mark Strong, Andrew Scott, Richard Madden, Colin Firth e Benedict Cumberbatch) e alla ost presente (il canto nel bosco dei soldati è da brividi).

Lungi dal voler essere un film costruito a tavolino solo per impressionare, il piano sequenza di 1917 (in realtà è stato girato in più riprese quindi tecnicamente non un piano sequenza unico) non è, come avete letto, l’unico fiore all’occhiello di un film grandioso, che insegna l’eroismo vero e privo di retorica e che ci mette davanti alle nostre più grandi paure: ovvero non poter più rivedere le persone che amiamo.

Mattia Nesto

Fa che la morte mia, Signor, la sia comò 'l score de un fiume in t'el mar grando

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Mattia Nesto

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