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Minari – Epos della quotidianità

La notte degli Oscar si avvicina sempre di più, e noi andiamo avanti con la piccola rassegna dei film candidati a trionfare. Di Minari si sente parlare ormai da più di un anno. Al Sundance del 2020 era stato accolto come un capolavoro, ma poi la pandemia ha costretto la distribuzione a tenerlo in un cassetto a lungo. Ad oggi solo il pubblico statunitense ha potuto godere di qualche proiezione sul finire dello scorso anno. Per quanto riguarda l’Italia sarà probabilmente il primo film in programmazione alla riapertura delle sale cinematografiche.

Non so per certo se il quarto lungometraggio di Lee Isaac Chung sia quel film eclatante di cui molti hanno parlato. Si tratta però di un’opera non banale, da guardare con attenzione, pur con qualche difetto nella scrittura. Ispirato all’infanzia dello stesso regista, il film racconta della famiglia Yi, che a metà degli anni ’80 si trasferisce dalla California all’Arkansas. A volere questo spostamento è Jacob, padre di famiglia sudcoreano trapiantato perfettamente nel modo di lavorare dei nuovi connazionali. Ha trascinato la famiglia duemila miglia ad Est per coronare i suoi sogni lavorativi, fondare una grande fattoria per coltivare prodotti agricoli della madrepatria. La moglie Monica sembra voler arginare il suo entusiasmo e il suo ottimismo, ma non è per niente facile. La coppia ha due figli: David, nel pieno dell’infanzia, è un bambino timido ma dal carattere abbastanza sfacciato, al contrario la sorella Anne, più grande di qualche anno, gioca alla perfezione il ruolo di figlia maggiore giudiziosa e razionale.

Un frame del film tratto dall’autore.

Neanche il tempo di adattarsi alla nuova sistemazione – con seri problemi di approvvigionamento d’acqua  – che la pace della famiglia viene turbata da una figura esterna, nonna Soon-ja. Arrivata direttamente dalla Corea, i suoi modi così inusuali destano curiosità e molti sospetti nei due bambini: la crudele innocenza di David lo porterà ad accusarla di non essere una vera nonna perché non è capace di cucinare i biscotti. Il personaggio di disturbo accompagna Minari nel terreno della tragicommedia borghese, ma mai fino in fondo. Lungi dall’incontrare toni caustici o  catastrofi relazionali il registro narrativo non si scolla mai dagli stilemi del cinema indie americano.

Un frame del film tratto dall’autore.

Poco a poco il piccolo David riesce a digerire la presenza della nonna. Durante le loro passeggiate piantano dei semini di minari, il tipico prezzemolo coreano, e tornano a  controllare che il loro primo vero insediamento agricolo in Arkansas cresca bene. La “digestione” della presenza estranea diventa anche letterale, perché i due fratelli arrivano a scoprire – dapprima con un disgusto manifesto – i sapori della tradizione culinaria del luogo di cui sono originari i genitori. La vecchia Soon-ja si è presa tutte le attenzioni della famiglia, e anche la nostra di attenzione è rivolta al suo modo di agire sempre ironico e composto. La camera di Chung indugia molto su di lei, arrivando quasi a perdere di vista il duro lavoro che Jacob svolge quotidianamente insieme a Paul, un contadino reduce della guerra in Corea, trasandato e iperreligioso. Il processo di integrazione degli Yi nella comunità locale passa proprio attraverso la frequentazione della chiesa, dove i bambini riescono finalmente a fare amicizia con qualcuno, uscendo per la prima volta dopo il trasferimento dal nido familiare, spesso intriso di tensioni.

Nel quarto finale il film prende con più decisione la strada del dramma, ed è proprio in quel momento che il nostro affetto per i cinque protagonisti esce dirompente allo scoperto. Dopo i gravi problemi di salute della nonna arriva l’incendio del fienile. Jacob e Monica si lanciano nelle fiamme per salvare le casse di frutta con una furia cieca da Mazzarò verghiano. La pace turbata ritorna nella sequenza finale, di nuovo pulita, di nuovo nella radura dove cresce il prezzemolo selvatico.

Il grande pregio di Minari sta proprio nella forza posta nei gesti insignificanti. La passione che non ci fa scollare un secondo gli occhi dalle vicende della famiglia Yi è una messa in crisi delle nostre certezze. Abbiamo ancora bisogno delle storie di eroi, dei divi agghindati e dei giochi pirotecnici della macchina da presa? Non c’è – ancora – una risposta, probabilmente non ci sarà mai, ma la domanda sorge più che legittima. Una forte tensione mimetica ci fa stare in apprensione per i problemi di cuore del piccolo David, ci fa spaventare quando si fa cadere un cassetto sul piede, ci permette di aderire senza difficoltà a quello che si sta vedendo. Lee Isac Chung lavora con grande finezza, riuscendo a romanzare appena gli eventi con movimenti di macchina quasi impercettibili. Non si ha mai l’impressione di essere davanti a uno stile da documentario, dal momento che il regista si prende sempre la briga di direzionare il nostro sguardo, avvicinandosi o allontanandosi, e facendo percepire il senso diegetico del movimento. Facendoci sentire tutto il gusto sprigionato dall’epos della quotidianità.

 

 

Gabriele Vollaro

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