L’infarto del miocardio resta tra le emergenze mediche più frequenti e letali nei paesi industrializzati, inclusa l’Italia, dove ogni anno colpisce circa 140.000 persone. La tempestività nel riconoscere i sintomi e nell’intervenire è cruciale per salvare vite e ridurre le complicanze.
Negli ultimi anni, grazie a progressi diagnostici e terapeutici, la mortalità è diminuita, ma la prevenzione e la consapevolezza rimangono fondamentali.
I sintomi dell’infarto: come riconoscere un attacco di cuore
L’infarto miocardico acuto si manifesta tipicamente con dolore toracico di tipo oppressivo o costrittivo, spesso descritto come una morsa che stringe il petto. Questo dolore può irradiarsi al braccio sinistro, alle spalle, al collo, alla mandibola e alla schiena. È importante sottolineare che nei casi più gravi il dolore può durare anche per ore o presentarsi a ondate ripetute, a differenza dell’angina pectoris, che solitamente dura meno di 20 minuti.
Nelle donne, i sintomi possono essere più sfumati e atipici. Oltre al dolore toracico, possono manifestarsi con affaticamento estremo, nausea, difficoltà respiratorie, sudorazione improvvisa, dolore addominale o bruciore di stomaco, e dolori localizzati alla schiena o alla mascella. Dopo la menopausa, con la riduzione degli estrogeni, il rischio di infarto nelle donne si avvicina a quello maschile, ma spesso la percezione del rischio è inferiore, portando a ritardi nella richiesta di soccorso.
Altri segnali da non sottovalutare includono:
- Difficoltà respiratoria: senso di mancanza d’aria che può accompagnare il dolore toracico;
- Nausea e vomito: spesso associate a disagio gastrointestinale senza altra spiegazione;
- Tachicardia e stanchezza improvvisa: un battito cardiaco irregolare o accelerato, accompagnato da senso di affaticamento e vertigini, può essere un campanello d’allarme.

L’aterosclerosi, cioè l’accumulo di placche di grasso nelle arterie coronarie, rappresenta la causa principale dell’infarto. La rottura di una placca e la formazione di un trombo bloccano il flusso sanguigno provocando la necrosi del tessuto cardiaco. Tra i principali fattori di rischio modificabili figurano:
- Colesterolo LDL elevato e HDL basso;
- Ipertensione arteriosa;
- Diabete mellito;
- Sovrappeso e obesità;
- Sedentarietà;
- Fumo di tabacco;
- Abuso di alcol.
Tra i fattori non modificabili, invece, spiccano l’età, il sesso (con rischio maschile più elevato in età giovane ma allineamento dei rischi dopo la menopausa nelle donne) e la familiarità per malattie cardiovascolari.
Un dato recente sottolinea l’importanza della prevenzione precoce: il controllo del profilo lipidico dovrebbe iniziare intorno ai 35-40 anni, mentre la misurazione della cosiddetta lipoproteina (a), un colesterolo genetico amplificatore del rischio, è raccomandata almeno una volta nella vita. Anche la glicemia e la pressione arteriosa sono fondamentali da monitorare, soprattutto in presenza di diabete o ipertensione.
La diagnosi di infarto si basa su un’attenta valutazione clinica, sull’elettrocardiogramma (ECG) e sul dosaggio di marcatori biochimici come le troponine ad alta sensibilità. L’ECG classico rileva alterazioni importanti come il sopraslivellamento del tratto ST, indicativo di un infarto STEMI, oppure il sottoslivellamento ST, tipico degli infarti NSTEMI.
L’intervento più efficace è il rapido ripristino del flusso coronarico, principalmente attraverso l’angioplastica coronarica percutanea con impianto di stent. Quando non è possibile eseguirla tempestivamente, si ricorre alla terapia trombolitica per sciogliere il coagulo. La rivascolarizzazione precoce riduce significativamente l’area di necrosi e migliora la prognosi.
In caso di dolore toracico di origine non chiara, è essenziale rivolgersi immediatamente al pronto soccorso o chiamare il 118. Il personale medico può effettuare l’ECG sul posto, monitorare le condizioni e trasportare il paziente nell’ospedale più attrezzato. Questo approccio riduce la mortalità e consente un trattamento tempestivo.
