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Le pubblicità durante il coronavirus sono tutte uguali, e non è un bene

Chi bazzica nel campo dell’advertising conosce bene il percorso evolutivo della pubblicità dagli anni dei suoi albori fino ad oggi. Non solo: chi studia la marca e il suo mondo, aveva in mente anche il suo futuro sviluppo. Con il coronavirus, questo sviluppo della marca sembra essere minato dalla necessità di attirare l’attenzione del consumatore sul prodotto facendo leva sulle debolezze e le mancanze che ognuno di noi ha in questo periodo di pandemia.

Mi spiego meglio: guardando gli spot pubblicitari nel mondo, facilmente ci si accorge di come questi, oggi, siano tutti uguali. Esattamente tutti fanno presa sugli stessi valori, come la casa e la famiglia, in linea con quelli che sono i bisogni condivisi da tutti. In un periodo storico del genere, facilmente le pubblicità si vestono, allora, di alcune parole chiave: casa, famiglia, e ci rassicurano dicendo che “we are here for you”, perché solo insieme si può superare un periodo difficile e di incertezza del genere. Il tutto condito con una musica malinconica di sottofondo che ci ricorda quanto stiamo messi male, quanto era più bello il contatto con le persone, i nostri cari, che uscire di casa e incontrare gente era meraviglioso, così come andare al parco, al cinema, al ristorante. Un approccio facile quanto patetico, che sembra indietreggiare rispetto allo sviluppo in avanti che la marca stava percorrendo verso la cosiddetta “marca ideologica”.

In principio la “marca era funzionale”. La storia della marca comincia, cioè, con il preciso scopo di risolvere un problema: il “prodotto-eroe” veniva pubblicizzato come un prodotto problem solving. Un esempio classico? Il detersivo. Dalla “marca funzionale” si era passati alla “marca aumentata”: il prodotto non era più solo e unicamente in grado di risolvere un problema, ma trasmetteva anche dei valori ben precisi e cominciava a rappresentare uno status. Esempi? Barilla uguale casa e famiglia tradizionale, o “se compri una certa auto sei un certo tipo di uomo”. Eravamo negli anni ’70/’80. Nel tempo, l’accento sugli aspetti emozionali continuava in maniera più precisa e articolata, fino ad approdare alla “marca totale”, dove il prodotto è un prodotto complesso che poggia sui quattro pilastri performance, alleanze, portfolio e reputazione.

Il futuro della marca, prima della virata coronavirus, sarebbe dovuto essere la “marca ideologica”: una marca che si mostra, attraverso la pubblicità, sempre meno come un prodotto e sempre più come un valore universale, un’ideologia, anche politica, in cui il consumatore si riconosce, riflette, con un risultato sempre diverso e variegato quante sono le identità che la marca vuole rappresentare.

Guardando agli spot pubblicitari di oggi, questo scopo “ideologico” della marca sembra essersi perso e, con lui, sembra essersi persa la complessità che la marca aveva sviluppato nel corso della sua storia. Le pubblicità sembrano essere tutte uguali, perché tutte fanno leva sugli stessi valori, desideri, sugli stessi bisogni.

Attraverso formulette semplici e patetiche, cosa vuole dirci oggi il brand? Che siamo persi, ma che insieme ci solleveremo? Su cosa vuole fare presa esattamente? È un mese che tutti siamo chiusi in casa e la consolazione patetica da parte del mondo dell’advertising non porta davvero a nulla di positivo. Piuttosto: intrattenere, divertire, incoraggiare, supportare, spronare a darsi da fare per reinventarsi. E, ancora prima, mostrare la realtà per quella che è, senza false illusioni. Vogliamo più pubblicità che dicano: “we may be standing six feet apart, but we’re still standing” e meno pubblicità che ripetano cose che già, purtroppo, sappiamo bene da noi. Per favore, torniamo a fare pubblicità di qualità, diversificata, anomala. Torniamo sulla via sella “marca ideologica”.

Claudia Mazziotta

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