TV e Cinema

David di Donatello, la rivoluzione della leggerezza

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Sedici anni, è questo il tempo che è passato dall’ultima volta che una commedia ha vinto i David di Donatello. Era il 2000 e il premio andava a Pane e Tulipani di Silvio Soldini: da quel momento un’infilata di film spesso bellissimi, ma sempre drammatici e molto d’autore, come da tradizione recente del cinema italiano.

Fino a quest’anno, l’anno della svolta. Un anno di vero cambiamento, che inizia dal premio per il miglior film a Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese, passa per il trionfo di Lo chiamavano Jeeg Robot e si conclude con la produzione dello show affidata a Sky.

 

Perfetti Sconosciuti

 

Tre storie diverse, tutte unite da un unico sentimento: la leggerezza. Il film di Paolo Genovese è una commedia interamente ambientata in una stanza, che riesce a raccontare il mondo che sta al di fuori, perché quello della privacy della propria vita online è tema del presente, che tutti conosciamo. Non una storia alta o altra, quindi, ma una storia semplice e quotidiana, scritta e messa in scena come dio comanda. Meglio: scritta e messa in scena come una commedia in grado di diventare un classico.

 

Lo chiamavano Jeeg Robot

 

Su Lo chiamavano Jeeg Robot si è già scritto tanto e anche noi abbiamo detto che – semplicemente – tutti i film italiani dovrebbero essere così. Non come storia, ovvio, ma come taglio: un film che scava nel territorio e nell’ambientazione italiana, ma con un approccio che vuole essere universale. Lo chiamavano Jeeg Robot si è portato a casa sette David: due se li è presi Gabriele Mainetti (produttore e regista esordiente), uno il montatore Andrea Maguolo e poi hanno fatto filotto gli interpreti: miglior attore e attrice protagonisti (Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli) e non protagonisti (Luca Marinelli e Antonia Truppo). Praticamente tutto quello che contava, escluso il premio principale, per cui il film non era candidato.

Quella di un cinema di genere e d’azione in Italia è stata una scommessa rischiosissima, condivisa con Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone, che ha vinto per la miglior regia (anche qui Lo chiamavano Jeeg Robot non era candidato) e ha conquistato altre sei statuette tecniche e visive (da fotografia a effetti digitali, passando per trucco, acconciature, costumi e scenografia). Due film diversi tra loro, ma diversi anche dal cinema italiano: la loro vittoria è la prova che il cinema italiano sta affrontando un momento cruciale, quello in cui può cambiare e tornare a essere contemporaneo e attuale non solo in riferimento al nostro paese, ma anche in un orizzonte internazionale. In questo senso, diventa simbolica la sconfitta di Youth di Paolo Sorrentino, film comunque importante, ma che finisce per essere penalizzato da questa nuova onda di genere. La stessa onda che avrebbe potuto portare premi al bellissimo Non essere cattivo di Claudio Caligari, che invece ha conquistato solo il David per il miglior fonico di presa diretta.

 

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L’ondata di cambiamento e di ritrovata leggerezza è coincisa con la prima cerimonia dei David prodotta e trasmessa da Sky. Rispetto alle edizioni RAI, un abisso: impossibile non notare la differenza di ritmo e di approccio, con la volontà di guardare alle cerimonie statunitensi, senza però ridursi a plagiare minuto per minuto. La conduzione di Alessandro Cattelan è stata precisa ed essenziale, con qualche chicca non da poco, tra cui la splendida battuta al presidente dell’Accademia Gian Luigi Rondi (“Preghiamo chi ritira i premi di essere rapido, Rondi ha 94 anni e vorrebbe vedere la fine della cerimonia”) e il video iniziale dei The Jackal con un autoironico Paolo Sorrentino. Ultima annotazione a riguardo: al netto del red carpet iniziale, la cerimonia è durata due ore. Tempo perfetto, tutto filato via liscio. Leggerezza nei film, leggerezza nel racconto: le due cose non sono ovviamente collegate, ma volendo essere fatalisti, non poteva che essere così. Per i David e per il cinema italiano, è stato l’anno perfetto.

Marco Villa

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