Musica
di Marcello Farno 2 Dicembre 2015

Floating Points, da neuroscienziato a dj internazionale

Abbiamo intervistato il musicista che si divide tra serate sold out e ricerca scientifica

floating_points-1855  Foto di Louise Haywood-Schieffer

 

Un dottorato in neuroscienze alla University College London, accompagnato dall’uscita di un disco ambizioso e dal progetto di portarlo in giro con un ensemble di sedici elementi. Il 2015 di Sam Shepherd, in arte Floating Points, non è uno di quegli anni che si direbbero tranquilli. Eppure dietro l’estro multitasking del 29enne di Manchester trapiantato a Londra risiedono i segreti che sono la virtù dei forti: la pazienza e la calma che si è concesso nel lavorare per sei anni ad Elaenia. Non semplice, se per metà del giorno devi prestare occhio alla genetica delle cellule e tenere in ordine il tuo laboratorio.

L’album, suo primo gioiello discografico, dopo una pletora di singoli ed ep, ha visto la luce nelle ore libere dallo studio, e possiede la grazia e l’aerostaticità tipiche dei lavori concepiti in assoluta sintonia con spazio e tempo circostanti. Proprio lo spazio, fisicamente inteso, è uno degli argomenti più a cuore per Sam, ed Elaenia è da immaginarsi come una grossa stanza che fluttua, sospesa, tra le diverse sensibilità attraversate dall’artista lungo gli anni della sua formazione musicale. C’è la classica che riempiva gli spazi e le ore in casa a Manchester, così come i frutti di sessioni estreme di diggin’ in giro per il mondo, a scovare introvabili classici brasiliani, misconosciuti spiritual jazz. Uno spazio in cui entrare e accomodarsi per rimanere a proprio agio, come ripete lui insistentemente.

Lo abbiamo raggiunto via telefono a Londra per capire come si sviluppano i suoi processi creativi, quanto peso comportano una sperimentazione e uno studio costante, l’importanza di avere un pianoforte di fronte a cui sedersi nei momenti di stanca, e i motivi del suo particolarissimo amore per gli alberi di nespole.

 

 

“Elaenia” è un disco molto stratificato e profondo. Qual è stato il primo mattone dal quale sei partito nella sua costruzione?
Mi sono costruito uno studio a Londra, in un posto non così lontano da casa mia. Iniziavo ad accumulare sempre più roba e avevo bisogno di uno spazio dedicato per lavorare alla musica secondo i miei canoni espressivi, secondo il mio gusto. Per la prima volta ho iniziato a comporre con delle vere batterie, dei veri bassi. Come si intuisce facilmente non è un disco strettamente pensato per il dancefloor. Gli strumenti hanno riempito lo spazio che mi circondava, e hanno permesso di far fluire in un altro modo la mia creatività. Credo che lavorare in un nuovo spazio, fisicamente inteso, sia una delle cose che mi abbia più influenzato nella scrittura di Elaenia.

Ho letto in un’intervista che ti ripeti molto spesso che “se qualcosa vale la pena di essere fatta, allora va fatta correttamente”. Volevo chiederti in che modo hai organizzato gli stimoli creativi che ti accompagnavano durante la lavorazione del disco.
La mia creatività viaggia molto lentamente. Ha bisogno dei suoi spazi, come ti dicevo, ma anche dei suoi tempi. Ho iniziato a scrivere questo disco sei anni fa e ho speso un po’ di tempo a sperimentare, ma soprattutto a modulare il mio sentire, e adesso sono molto soddisfatto di come sia venuto. Non ho un particolare metodo di lavoro, semplicemente ho bisogno di interiorizzare tutte le idee e capire quali vale la pena perseguire e quali no. E per fare questo hai sempre bisogno di tempo e di pazienza.

 

floating_points-1563  Foto di Louise Haywood-Schieffer

 

Ci sono delle abitudini dalle quali non potresti prescindere?
Ho speso veramente tanto tempo seduto al pianoforte, tutti i giorni per tutto il giorno a volte. Suonavo e risuonavo intere sequenze di note per vedere cosa succedeva, per capire se cambiando anche un solo accordo poteva nascere qualcosa di magico. Il disco è uscito fuori così. Un altro vizio che mantengo è quello di re-patchare costantamente tutte le mie attrezzature. L’ho fatto ad esempio quando mi sono spostato nel nuovo studio, volevo un certo tipo di suono per Elaenia e l’ho ottenuto dopo aver passato tante ore a sperimentare. Una delle cose più importanti che ho capito è che il valore di album non può prescindere dal modo in cui lo registri. Far suonare bene un disco equivale ad aumentare lo spessore della musica in esso contenuta.

Il tempo, la pazienza, i sei anni impiegati per chiuderlo. Significa che non hai sopportato nessun tipo di pressione esterna, è così?
Probabilmente sì, sono stato in università a studiare negli ultimi cinque anni, occupando il resto del tempo con la musica, ha finito per somigliare ad un hobby più che a un lavoro, ed è giusto che sia stato così. Questo mi ha permesso di non avvertire mai nessun tipo di pressione quando mi approcciavo alla scrittura del disco. Paradossalmente la pressione la avverto adesso, organizzare il live con la band, far suonare tutto bene, è un compito arduo.

 

 

Cosa facevi nei momenti in cui non lavoravi al disco?
Ho viaggiato, ma quasi sempre per lavoro, come dj, dall’America all’Asia, ho avuto l’opportunità di conoscere tanti posti, tante persone che mi hanno stimolato. Quando non c’era la musica c’era sempre qualcosa da fare per l’università. Oppure il piano a tenermi compagnia.

Il tuo studio sulle neuroscienze ha finito per influenzare il tuo approccio sul suono?
Sono due cose separate, che non c’entrano l’una con l’altra. Come ti dicevo la musica è sempre stata un piano di fuga, quando mi sedevo di fronte al piano cercavo di dimenticare tutti i problemi, le ansie della ricerca. All’università, con il mio gruppo, ho lavorato per comprendere i meccanismi per cui diverse comunità di individui hanno una diversa percezione del dolore, attraverso quella branca di studio che si chiama epigenetica. È una materia molto delicata, in cui c’è bisogno di controllare attentamente anche i più sottili cambiamenti nel comportamento delle cellule. Forse questa cura, questo bisogno di captare anche i movimenti più piccoli all’interno di un sistema complesso, può essere messa in analogia con il mio modo di fare, di pensare la musica. Ma credimi, anche se così fosse, sarebbe il frutto di una percezione molto inconscia.

Elaenia è un disco molto ambizioso, come il progetto di portarlo anche in giro con un vero ensemble. Hai però già in testa quello che potrebbe essere il prossimo step della tua carriera?
Rendere ancora più completa l’esperienza live. L’idea di suonare con una band di sedici elementi mi eccita e allo stesso tempo mi tiene molto impegnato. Sto cercando di rimodulare il set-up, renderlo più grande, più piccolo, a seconda delle situazioni in cui mi trovo a suonare, e adesso voglio lavorare a fondo su questa cosa. Ho la fortuna di essere circondato da musicisti che mi supportano e mi aprono nuovi orizzonti, aggiungendo a loro volta nuove idee. Assieme ai visual, sui quali sto insistendo molto, mi piacerebbe anche inserire una nuova dimensione performativa all’interno degli show, legata alla danza contemporanea. So che mi prenderà parecchio tempo, ma non voglio avere fretta.

 

floating_points-1821  Foto di Louise Haywood-Schieffer

 

Possiedi più di diecimila dischi e sei un vero esperto di diggin. Da cosa ti fai guidare nella scelta dei banchi in cui andare a spulciare? E qual è il posto più strano in cui hai acquistato dei dischi?
Mi fido molto dei feedback degli amici, chiedo spesso alle persone che conosco se hanno dei posti da consigliarmi. Quando ero più giovane badavo anche al lato economico della faccenda, non che adesso non lo faccia, ma allora avevo bisogno di costruire la mia collezione e quindi avere tanti dischi a poco prezzo era una svolta. Ho scoperto che in America si comprava bene e ho iniziato ad andare lì, a Chicago soprattutto, andavo anche due volte l’anno, e tornavo con una valigia piena.

Un’altra cosa che mi piace è parlare molto con le persone che incontro nei negozi, scambiare pareri con loro, è divertente, avverti tutta la passione, il calore umano che uno shop online non potrà mai sostituire. Dirti il posto più strano in cui ho comprato è veramente difficile, perchè ce ne sono tanti, uno che mi sta particolarmente a cuore è Charlie’s Calypso, a Brooklyn. Rawlston Charles, il proprietario, è un nativo di Trinidad & Tobago, che dagli anni ’70 è uno dei più grandi importatori di dischi soca e calypso in America, una specie di santone. L’ho incontrato ed è stato veramente super divertente, mi ha raccontato un sacco di storie pazzesche.

Ultima cosa: uno dei pezzi del disco si chiama Nespole, c’è qualche connessione con il significato italiano della parola? A noi piace molto, è un frutto veramente buono.
Certo che c’è un legame! Vivo a Farringdon Road e la finestra della mia camera da letto dà su un giardino e in questo giardino c’è un grosso albero di nespole. È abbastanza inusuale per Londra, così mi sono documentato e ho scoperto la parola italiana, che da subito mi è suonata veramente bene. Quando ho iniziato a scrivere quel pezzo era piena stagione, e iniziavano a uscire i primi frutti. L’ispirazione è “sbocciata” in maniera abbastanza spontanea.

 

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