La maternità messa in scena nei film è mostrata solitamente, se non come il periodo più bello della vita di una donna, come la spinta che la induce a cambiare o a prendere decisioni importanti. …E ora parliamo di Kevin ci dà una visione diversa di quei nove mesi, pur concentrandosi quasi esclusivamente sul post-partum. Eva – una Tilda Swinton da Oscar – è una donna indipendente, affermata e innamorata del suo compagno, finché per errore rimane incinta. E’ chiaro fin dal principio che Eva non desidera il bambino, anche se non viene mai accennata -probabilmente perché la regista è disinteressata a mostraci le implicazioni del caso – la volontà della donna di abortire. Quando nasce Kevin, il rifiuto di Eva diviene sempre più evidente sia a noi che a suo figlio. Il bambino, nonostante Eva non compia mai azioni che minaccino la sua sicurezza, percepisce una totale indifferenza della madre nei suoi confronti. La messa in scena del mutismo compiuto da Kevin è solo il primo atto di rivolta nei confronti di Eva, prima dimostrazione che si sommerà ad altre più o meno diaboliche che ci conducono mano nella mano all’obbligato climax (che ovviamente non svelerò).
L’incapacità di dare amore al proprio figlio, dovuta alla consapevolezza di perdere un pezzo della propria personalità, nonché la sensibilità del figlio stesso di percepire questa negazione, è riassunta brillantemente nell’immagine sottostante, in cui Kevin rovina le carte geografiche di Eva simboleggianti le sue aspirazioni, i suoi gusti, i suoi viaggi: la sua individualità.
Kevin, in una delle ultime battute del film, ricordando di essersi rotto un braccio per colpa di Eva, le dice: “Questa è l’unica cosa buona che mi hai fatto”. Il sottotesto è: sempre meglio della tua indifferenza. Ed è un’indifferenza che è un pugno nello stomaco perché fatta di silenzi, di sguardi, di mani che si sfiorano senza toccarsi. …E ora parliamo di Kevin è questo: un film che non urla ma che prende nell’anima.
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