TV e Cinema
di Mattia Nesto 13 Aprile 2021

“Speravo de morì prima”

Una serie ultrapop sul calciatore più pop(olare) di sempre.

Per qualche settimana non si è parlato d’altro, e per questo decidiamo di uscire oggi, a bocce ferme. Speravo de morì prima è la serie di Sky dedicata a Francesco Totti e tratta dal libro che lo stesso capitano della Roma ha firmato assieme all’illustre giornalista sportivo Paolo Condò.  Protagonista della narrazione Pietro Castellitto che, al di là della somiglianza, riesce con bravura e freschezza a indossare la maglia numero dieci giallorossa anche (e sopratutto) fuori dal campo, interpretanto la dramatis personae dell’uomo Totti, oltre che quella del calciatore. Con un’ìmpostazione pop, anzi ultra-pop, la miniserie di WildSide diretta da Luca Ribuoli ci è davvero piaciuta. Come la Roma campione d’Italia nel 2001, schieriamo un tridente di ragioni per guardarla.

Greta Scarano /Ilary Blasi

Attenzione, non voglio proprio fare il poser dicendo che il cuore della serie stia nei personaggi cosiddetti secondari. Che Pietro Castellitto abbia dato sfoggio di una grandissima prova attoriale non c’è il minimo dubbio, tuttavia, nonostante uno screentime che, almeno nelle prime due puntate, è stato abbastanza ridotto, mi ha davvero impressionato la bravura di Greta Scarano. L’attrice, reduce dall’aver fatto capitolare il Commissario Montalbano (suscitando l’ira funesta di una buona fetta della popolazione italiana sullo “Zingaretti fedifrago”, per una storia tratta da un libro del 2008, che al momento dell’uscita non suscitò polemica alcuna), è fantastica nel dare forma e sostanza a Ilary Blasi, ponendo l’accento sulla volontà di essere “una persona prima che la moglie del capitano”. Greta Scarano tratteggia una donna a 360 gradi che non vede la famiglia come una gabbia o come l’unica affermazione personale ma che è attenta a proteggere e investire sulla carriera, nel rispetto dei figli e del marito. Insomma se Totti è visto come un “superbambino dal talento sconfinato” Scarano/Blasi è una “donna adulta nel pieno della propria consapevolezza”. Molto brava e lontanissima da qualsiasi tipo di macchietta.

Gianmarco Tognazzi/ Luciano Spalletti

Qui vi debbo confessare che ho trovato incredibile, semplicemente incredibile, l’interpretazione di Gianmarco “Gimbo” Tognazzi nei panni (spesso svestiti) di Luciano Spalletti. Quello che è infatti, a tutti gli effetti, il villain della storia, ovvero l’ultimo allenatore di Totti, quello che è stato chiamato dalla dirigenza per “accompagnare il capitano alla porta”, è espresso da Tognazzi in modo elegante, acuto e memorabile. Un personaggio quasi mefistofelico che invece di rappresentare “il male assoluto” ne incarna il “necessario”. Tognazzi, che non ha sentito l’allenatore di Certaldo ma si è affidato unicamente alla versione del libro di Condò/Totti, costruisce un uomo, oltre che un allenatore, che dopo aver lasciato la Roma anni prima in seguito a campionati esaltanti, ritorna pieno di livore nei confronti del numero dieci reo, almeno secondo lui, di non lo aveva difeso abbastanza con la dirigenza. Totti ormai appartiene al passato, è solo un (quasi ex) calciatore ingombrante che con la sua sola presenza mette in difficoltà l’intera squadra. Ho trovato meraviglioso il modo in cui Tognazzi ha rievocato la particolarissima dialettica di Spalletti: insomma solo per questo personaggi va vista e rivista la serie.

Una serie ultrapop

Sinceramente tutto mi sarei aspettato da una serie su Totti tranne che una colonna sonora a base di Wilco. Eppure, per il tipo di narrazione scelta, la band di Jeff Tweedy ci sta benissimo, proprio perché è stato scelto di rendere pop Speravo de morì prima. Negli occhi, che in certi momenti paiono quelli di Rocky III, di Pietro Castellitto si specchiano quello del Capitano, l’antico “Pupone”, lanciato il 28 marzo 1993 in Serie A dal “sor” Carletto Mazzone, un bambino mai cresciuto o forse cresciuto troppo che ha sempre avuto in testa una e una sola cosa: la Roma, il poter giocare a calcio, anzi ancora meglio a pallone. Con la Roma a Roma.

Un uomo che incarna una città, l’ottavo re della Capitale del Mondo, il numero dieci per antonomasia. Alla luce di una carriera come quella di Totti, così scintillante, in cui magari ha vinto poco ma che ha avuto tante soddisfazioni così come tanti dolori (e infortuni), ho trovato perfetta la la patina di malinconia che avvolge gli occhi di Castellitto. Lo sguardo di un campione che, se avesse potuto fermare il tempo, sarebbe ancora con la maglia numero dieci giallorossa, i pantaloni corti e gli scarpini a giocare a pallone. Come se avesse ancora cinque anni, come se la Storia fosse sempre stata presente e non, ormai, passata.

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