Art
di Andrea Cazzani 23 Febbraio 2016

Enzo Mari, il soldato che combatteva contro la merda del mondo

Storia e opere del designer che si vergognava di essere designer

Ci saluta oggi, 19 ottobre 2020, Enzo Mari uno dei grandi Maestri del design italiano.
Questo il nostro tributo alla sua vita e al suo lavoro incredibili.

Alcuni di voi avranno visto su Youtube un estratto da un intervento televisivo di Enzo Mari in cui senza peli sulla lingua si scaglia contro il concetto contemporaneo di “creatività”. Naturalmente il popolo dei commenti dà fondo a tutta la propria creatività per insultare Enzo Mari in ogni modo: tutte persone che (ne siamo certi) prima di vedere questo frammento di due minuti, estrapolato da un’intervista ben più lunga, non lo avevano manco sentito nominare. Ma non siamo qui per contestare gli insulti via web, massima espressione libertaria del nuovo millennio.

Piuttosto facciamo luce su questo personaggio, novarese, nato nel 1932, tra le figure più significative del periodo d’oro del design italiano (ma lui “si vergogna di essere definito designer”), autore di oltre 1500 progetti per aziende quali Danese, Driade, Artemide, Alessi, Zanotta, Flou. E soprattutto pensatore, provocatore, critico, teorico del “fare”, “soldato che combatte contro la merda”, “coscienza dei designer”.

Quella di Enzo Mari è la storia di un ragazzo povero nell’immediato secondo Dopoguerra. Come tanti, ha dovuto abbandonare la scuola e vivere fra espedienti e lavori saltuari: non sa ancora che diventerà “Enzo Mari”. Certo, c’è voluto anche il colpo di fortuna al momento giusto, la scintilla che non potrebbe più scoccare, nello specifico la possibilità di iscriversi all’Accademia di Belle Arti senza disporre di titolo di studio, cosa che oggi sarebbe impossibile.

Qui la sua fame di sapere ha modo di esprimersi appieno, frequenta qualunque corso, viaggia con mezzi di fortuna per conoscere i capolavori dell’arte italiana del Rinascimento, da cui resta folgorato, come anche dal pensiero dei classici greci. Resta due giorni in contemplazione della Cappella Sistina, conosce Bruno Munari che nota in lui qualità fuori dal comune e avrà una parte importante nello sviluppo della sua carriera.

Dice Mari: “non potrò diventare Michelangelo, mi accontenterò di disegnare i fiammiferi“. È un’affermazione umile, ma nel suo cuore alberga lo spirito del demiurgo, da ottantenne ha il physique du rôle di un Socrate, le mani nodose di un boscaiolo saggio, e se fosse un attore potrebbe contendere a Morgan Freeman il ruolo di Dio.

enzo mari mela design grafica  Un lavoro grafico: La Mela, 1963. “Ho impiegato più di un anno per trovare le curve giuste”

 

Come i filosofi greci è affascinato dall’idea dell’arché, l’origine di tutte le cose, il principio primordiale. Applica questo concetto al progetto: disegna oggetti semplici, forme geometriche basilari realizzate con materiali tradizionali come legno o metallo, riutilizza semilavorati industriali (“la forma perfetta perchè non ha alternative, è quella e basta”).

Filtra queste idee tramite un personale eclettismo. Un cilindro di calcestruzzo sormontato da una semisfera diventa il “panettone” che vediamo quotidianamente per strada. Una putrella d’acciaio piegata è un elegante portaoggetti minimalista. Se gli viene chiesto quale oggetto esistente avrebbe voluto ideare, lui risponde “la palla”. Ma disegna anche le copertine dei Classici Adelphi e quel puzzle in legno in cui forme di animali si incastrano a comporre un rettangolo, incubo dei figli di genitori progressisti, bramosi della Playstation come tutti gli altri.

Anticipa le intuizioni dell’Ikea pubblicando nel 1974 il “Manuale di Autoprogettazione” per costruirsi da soli i mobili (ristampato recentemente da Corraini, qui lo trovate in pdf, di scarsa qualità ma sufficiente per farsi un’idea). All’epoca il Manuale fu criticato dalla comunità dei designer con l’assunto che il design dovrebbe semplificare la vita delle persone, non complicarla. Al contrario, Mari ha una visione didattica, idealista, quasi salvifica del suo lavoro: mostrare come si costruisce una sedia o uno scaffale migliora la vita delle persone perché trasmette conoscenza e manualità, valori invisi al mercato che desidera un pubblico ignorante, privo di memoria e incapace di valutare in autonomia la qualità di un prodotto.

 

 

I progetti presentati da Mari nel volume sono facili da realizzare, solidi, grezzi, “da lasciare a taglio di sega”, ma dalle forme perfette (un buon progetto “è”, non “sembra”). Chiari riferimenti a quanto mostrato in quest’opera si possono ritrovare oggi, ad esempio, nelle strutture in legno fabbricate solo con materiali di recupero del collettivo berlinese che ha realizzato club come il Bar25, il Katerholzig (ormai defunti) e l’Holzmarkt (che sta per essere ultimato).

E forse i falegnami berlinesi non hanno mai sentito nominare Enzo Mari: hanno semplicemente la stessa etica artigiana, pragmatica. Queste forme e questi metodi costruttivi non sono un’invenzione, come Mari stesso precisa. Le forme esistono fin dall’antichità, bisogna solo conoscerle e scegliere quella giusta per il nostro scopo.

 

enzo mari autoprogettazione tavolo legno  Progetto di tavolo contenuto nel volume Autoprogettazione, 1974: è stato messo in commercio da Artek, l’azienda fondata da Alvar Aalto, ma bastano tavole di legno e chiodi per fabbricarlo da soli

 

Contro l’economia di mercato, contro la catena di montaggio, contro le mode, contro lo sfruttamento dei lavoratori: il vulcanico designer crede in progetti di qualità, alla portata di molti e fabbricati con il coinvolgimento attivo della forza-lavoro (quando viene chiamato dalle aziende per realizzare linee di prodotti articolate, cerca il confronto e lo scambio di idee con gli operai). Il suo oggetto ideale dev’essere durevole e riparabile, opposto alla filosofia usa e getta contemporanea, che a suo parere ha trasformato il design in mero elemento decorativo, una firma utile più a incrementare il costo finale che a ottenere un prodotto migliore.

La metafora che meglio spiega il pensiero di Mari è quella del Kintsugi, pratica giapponese che consiste nel riparare con saldature d’oro o d’argento gli oggetti di ceramica andati in frantumi. Le stoviglie in questo modo acquistano addirittura valore, sia materiale che affettivo, dopo la riparazione, e vengono tramandate attraverso le generazioni.

 

 

Questo suo essere “contro” le leggi dell’industria e del mercato (alcuni suoi progetti non hanno avuto successo commerciale perchè “troppo economici”, difficili da vendere in un circuito fatto di costosi status symbol) non lo hanno certo aiutato a farsi strada in un mestiere in cui per forza bisogna rapportarsi con gli imprenditori del settore. E quando un designer già “scomodo” presenta un progetto provocatorio come questo…

“Nel 1972, il critico Pierre Restany m’invita a partecipare a una mostra collettiva alla galleria Il Centro, a Napoli, che riunisce la documentazione su alcune opere ambientali che si vorrebbero realizzare sulle pendici del Vesuvio. […] Non sono affatto d’accordo con l’idea di deturpare il vulcano, che eruttando si è sempre difeso da solo dalle occupazioni abusive, e trovo spaventosa la cementificazione selvaggia delle zone di pianura. La mia Operazione Vesuvio è, sin dal titolo, una provocazione: propongo di scavare una galleria orizzontale che colleghi il centro città con il cratere, sul cui fondo andrà costruito un nuovo centro residenziale. Le vie e le piazze verranno intitolate agli speculatori, e agli architetti e ingegneri del Politecnico che li hanno aiutati, obbligandoli ad abitarci per primi. Stilo un elenco di un centinaio di nomi, tutti veri, incluso quello di uno dei proprietari della galleria.” [tratto da Enzo Mari, Venticinque modi per piantare un chiodo, Mondadori]

…farsi dei nemici è facile. Eppure il suo valore, la sua etica, la sua cura nel lavoro, gli hanno permesso di aggiudicarsi ben cinque Compassi d’Oro (un premio che per il design è forse più importante dell’Oscar per il cinema), risultato che solo pochi grandissimi sono riusciti a conseguire. Chi scrive lo vorrebbe Presidente della Repubblica.

 

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