Social Network
di Simone Stefanini 18 Settembre 2019

Cosa succede quando lasci Facebook

Lasciare Facebook è facile, ma io non ci sono riuscito

Prima delle ferie d’agosto, ho deciso di distaccarmi da Facebook. Mi sono reso conto che il social più famoso in Italia stava condizionando la mia vita in modi e maniere che neanche avrei sospettato, se non avessi fatto un passo laterale per guardarmi tipo esperienza premorte. Dal 2008, ho utilizzato Facebook come prolungamento della mia brillantezza; col tempo ho riempito lo slot degli amici e guadagnato follower, ho scritto migliaia di status sagaci per il like, ho litigato furiosamente con conoscenti e sconosciuti, ho espresso pareri di natura politica, opinioni non richieste, ho elargito consigli su libri, film, musica e altre belle cose, ho flirtato, ho pubblicato foto e meme, ho almeno una volta scritto quello status criptico in cui odio qualcuno senza dire il nome, ho pure preso una querela per aver offeso uno della Lega. Unica cosa saggia: ho sempre evitato di scrivere i fatti miei, quelli importanti.

A fine agosto del 2019 la misura era colma: dopo la grande migrazione dei giovani da FB a Instagram, Facebook è diventato territorio, megafono e voce di ogni tipo di populismo e approssimazione, oppure mostra mercato di cinismo e disumanità. Io sono migliore di così, mi sono detto e ho deciso di distaccarmi dal social, di sparire per un po’ dai radar. Non è difficile sulle prime e non c’è neanche bisogno di eliminare l’account, basta smettere di interagire. Ho fatto le vacanze, mi sono divertito ma non ho postato nessuna foto che potesse localizzarmi, né post di qualsiasi natura. Ora vi racconto cosa è successo durante il rehab.

La prima cosa di cui mi sono accorto è che ogni mattina ero abituato a cercare un’idea, una frase ad effetto, qualcosa che coinvolgesse i miei contatti, un po’ come se dovessi pisciare sul mio territorio. Nel periodo di rehab, ho riscoperto il piacere di tenere commenti, sagacia, cinismo e voglia di apparire per me. Non è neanche difficile, i primi giorni ho sentito un’euforia nuova, ho assaporato rivincita e libertà tipo film americano sul baseball. Ho pensato a quanto ero stronzo ad affannarmi a parlare di ogni singolo argomento di conversazione dando la mia opinione, che si trattasse dello scioglimento dei ghiacciai o di quello dei Thegiornalisti, dell’ex Ministro dell’Interno, delle polemiche locali o globali. Quanto è sexy il silenzio, il mettersi da parte e lasciare che il caos del social continui la sua corsa senza che io lo cavalchi? Inebriante. Sono arrivato a pensare a quanto sono scemi tutti quelli che fanno come facevo io, che pensano di essere più intelligenti della massa ma visti dal di fuori sono parte dello stesso, identico sistema. In realtà è un po’ la reazione di quello che smette di fumare e, come per magia, inizia a fare simposi salutisti e a dirti come devi vivere la vita, risultando meschino e repellente.

Sulle prime l’abbandono di Facebook mi ha reso ancora più borioso, come se mi fossi innalzato sopra le teste delle persone comuni, degli influencer, dei commentatori seriali, di quelli che hanno un sacco di tempo libero, di quelli come me. D’altro canto, è stato affascinante diventare trasparente e non sentirmi più dire, quando saluto qualcuno che non vedo da tempo, “Lo so cosa fai, ti seguo sui social”. Interrompere la fiction sulla mia vita senza dare più punti di riferimento provoca ebrezza, ma come dice una canzone de I Cani, “Pure a sparire ci si deve abituare”. Con il diradarsi dei post, l’algoritmo di Facebook diventa come i tuoi amici quando ti trasferisci: sulle prime ti dice “dai ti passo a trovare”, poi piccato “com’è che non ti fai più vedere?”, poi, semplicemente, non fai più parte della routine e una volta sceso dalla ruota, non esisti davvero più.

A quello non c’ero abituato: avevo sovrastimato la mia importanza sulla bacheca dei contatti e l’onta perseguitava le mie giornate senza social: con tutta la libertà a disposizione, spesso pensavo “perché nessuno si chiede dove sia in questo momento?”. Grazie a questa lezione zen ho avuto un’illuminazione di fine agosto: perché a nessuno gliene frega un cazzo. Facile come suona e va bene così. Non c’è bisogno di farne la versione in prosa, ma ci provo lo stesso: finché sei partecipe e reperibile ti senti parte di una comunità, quando smetti di farlo, smettono anche gli altri di cercarti. È  un po’ la metafora della vita da adulti, non c’è da farne un dramma. Cambia anche l’atteggiamento del Grande Algoritmo: se non gli regali più etti giornalieri di carne fresca, lui ti mette in punizione. Sapendo bene che l’allontanamento volontario non sarebbe durato per sempre perché in fin dei conti sui social ci lavoro, nei miei momenti di pausa mi sono concesso dei piccoli esperimenti, tipo vedere quante persone riuscivo a coinvolgere con una battuta che prima dell’abbandono avrebbe fruttato 100 like facili. Hmm, 15 like, 20 al massimo. Non apparivo più come prima, la mia stella si era offuscata, avevo percorso i primi metri sul viale del tramonto.

Ho realizzato di esserci dentro con le scarpe e tutto, quindi la potevo pure smettere di fare l’asceta e potevo tornare al paese reale, con qualche consapevolezza in più. Per prima cosa, il social imita la vita reale e nei social imito la vita reale. Imitation of life, niente di più, quindi non c’è bisogno di scaldarsi o di prendersela, è tutto senza importanza e senza senso (proprio come la vita, amici!). I social hanno un loro specifico funzionamento e credere di poterli cambiare non è proprio possibile; se ci pensate è pure un accollo che non mi compete, trattandosi di regole, policy, leggi ed etica di un’azienda privata di cui non sono un dipendente pagato. Quello che posso fare è applicare la mia etica, le mie regole, le mie leggi e la mai policy al mezzo, evitando di sentirmi schiacciato dalla pressione o dalla dittatura dell’instant feedback, della fomo e di tutte quelle parole che significano ansia.

Una volta tornato a lavorare, sono tornato anche a postare cose su Facebook, dapprima con parsimonia e quiete, poi proprio come facevo prima, ma quello è perché io sono un somaro che non impara mai, magari se lo fate voi cambia qualcosa. Ho assimilato una sola lezione: dopo 48 ore di silenzio stampa sui social, ci guadagniamo di nuovo la verginità. Abbiamo detto una cazzata? Litigato con un milione di sconosciuti? Minacciato di morte le foche di Weddell senza motivo, solo per il LOL e siamo stati sommersi dalla shitstorm? Nessuna paura, nessun problema, bastano 48 ore di silenzio stampa in cui dev’essere assolutamente vietato rispondere alle provocazioni. Di solito sono sufficienti, perché dopo un paio di giorni l’ago della discussione si è spostato, magari è morto qualcuno, è iniziato X Factor oppure ha preso fuoco una nuova foresta e della nostra piccola grande guerra non interessa più a nessuno.

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