L’uman codino

Un personaggio dalla natura eccentrica amato incondizionatamente da tutti gli italiani, un attore dalla fattezze fisiche spaventosamente simili ed una trama così bella ed allo stesso tempo struggente da non aver nemmeno bisogno di essere romanzata. Le premesse de “Il divin codino” erano ottime, ma la storia di Baggio non si può riassumere in 90 minuti, siano essi di un film o una partita di pallone.

A pochi mesi di distanza da “Speravo de morì prima” gli italiani hanno a disposizione un nuovo prodotto, (questa volta un film non una serie) che tratta la vita di un calciatore ed un uomo altrettanto iconico. Totti è stimato (o odiato) in tutto lo Stivale proprio in virtù del suo essere la più grande bandiera mai esistita, per questo il suo destino è indissolubilmente legato alle sorti della sua città natale. “Come Maradona per gli argentini”, sostiene Sacchi in un momento cruciale del film. Quando si parla di Roberto Baggio il discorso trascende i limiti del raccordo anulare ed anche quelli dell’umano: se il capitano della “magica” rimarrà per sempre l’ottavo re di Roma, l’epiteto “divin”, accostato a “codino” – il tratto estetico che contraddistinguerà il fantasista veneto per tutta la carriera- la dice lunga sul legame quasi religioso tra Baggio e gli italiani.

Maradona aveva già trionfato con la propria nazionale, e aveva portato l’albiceleste un’altra volta in finale, nel mondiale giocato in casa nostra, in quelle notti magiche che, ancor prima di quel maledetto rigore nell’epoca pre-internet, hanno consegnato al mondo intero le immagini di un altro fuoriclasse (che ancora indossava il 15 sulle spalle) destinato a segnare gli anni a venire. La scelta di tagliare dalla trama Italia 90 risulta quantomeno rivedibile. Ma andiamo con ordine, soffermiamoci ancora per un attimo sulla retorica della sconfitta (a volte anche un po’ pesante e banale) che sta alla base di tutta la pellicola e certamente ci aiuta a comprendere al meglio la figura del personaggio che si nasconde dietro al campione. Il rigore sbagliato nel 94 non ha regalato a Baggio un mondiale, ma gli ha consegnato per sempre le chiavi del cuore di un popolo, trasformandolo nel più iconico numero 10 della storia della maglia azzurra. Roberto Baggio ha conquistato il cuore di una nazione intera, con i suoi piedi fatati ma soprattutto con la versione più umana del suo codino, quella stesa con la faccia sulla erba nel caldo afoso di un pomeriggio americano.

Le premesse per realizzare un ottimo film insomma ci sono tutte. Un personaggio dalla natura eccentrica amato incondizionatamente da tutti gli italiani (tifosi o meno), un attore dalla fattezze fisiche spaventosamente simili ed una storia così bella ed allo stesso tempo struggente da non aver nemmeno bisogno di essere (troppo) romanzata. “Il divin codino” non parla esclusivamente di campo, anzi lo evita sapientemente, relegando le scene agli spazi che lambiscono il manto verde come gli spogliatoi, i tunnel degli stadi e le palestre. Questo comporta due grandi vantaggi, il primo l’immedesimazione in un personaggio X anche da parte di chi non conosce la storia sportiva di Baggio, la seconda, il taglio delle scene, se così si può dire, “d’azione”. Il rapporto tra calcio è cinematografia è lunghissimo e complicato, recitare con i piedi, in certi casi, può essere estremamente difficile. Le pellicole che parlano di questo sport hanno sempre vissuto un eterno contrasto con l’irrealtà di riprodurre un’azione naturale. “Il divin codino” sotto quest’aspetto se la cava egregiamente, alternando immagini tratte dai mondiali del 94 con scene recitate in panchina riprese col medesimo effetto “vintage” delle telecamere dei tempi. La stessa tattica che si utilizza nei film sugli squali alternando momenti di recitazione e immagine dell’animale tratte dai documentari.

Un altro punto forte de “Il divin codino” sono sicuramente gli attori, il già citato Andrea Arcangeli, divenuto noto per la sua partecipazione in Romulus, (cui somiglianza col campione di Caldogno aumenta col passare dei minuti) ma è anche da segnalare l’ottima  prova di Thomas Trabacchi come Vittorio Petrone, storico procuratore di Baggio. A svettare su tutte sono però le interpretazioni di Andrea Pennacchi nei panni di Florido Baggio, padre di Roberto, e Martufello in quelli del più importante allenatore nella carriera dell’attaccante, Carletto Mazzone. Il primo, conosciuto principalmente nelle caricaturali vesti da imprenditore del nord est con l’alterego di “Poiana”, si trova perfettamente a suo agio nel ruolo di un rude meccanico, padre di famiglia tutto sghei e lavoro. Personaggio portatore di uno spiritualismo utilitaristico, cinico e molto veneto che fa da contraltare al buddismo del figlio, sarà presentato alla stregua di un  “villain” sin dagli inizi della trama, unico ostacolo insieme agli infortuni per la carriera del calciatore, ma si rivelerà invece il motore fondamentale della storia grazie alla promessa strappata al giovane Roberto di fronte alla finale dei mondiali del 70. Sul secondo poco possiamo dire se non che il mio ultimo ricordo era ancora legato al Bagaglino con Pippo Franco. In un sol colpo ho rivalutato l’intera carriera di Martufello. Nessun attore avrebbe potuto interpretare al meglio il ruolo del verace allenatore romane, ed è un discorso che va ben al di là della somiglianza fisica. L’unico peccato è averlo visto così poco: ora speriamo tutti in uno spin-off parallelo dedicato proprio a Carletto Mazzone. E così apriamo il capitolo sui problemi.

Comprimere la parentesi bresciana di Baggio ad un appendice per la sua esclusione dai mondiali in Giappone ( la nazione che forse, dopo l’Italia, lo idolatrava maggiormente) mi è sembrato una scelta a dir poco limitante. A questo si aggiunga la già citata esclusione dei mondiali in Italia ma anche di quelli 8 anni successivi in Francia 98, il suo periodo al Bologna come quello nelle grandi big, Juventus, Milan ed Inter che -a differenza di Totti, Del Piero, Maldini o Zanetti- lo hanno reso la bandiera non di una squadra, ma dell’intera Serie A. “Il divin codino” è diviso in tre atti, ad ogni passaggio sia ha la netta sensazione manchi qualcosa, anni e anni di carriera riassunti nel giro di una schermata nera. Certo, potremmo soffermarci sulla questione dei product placement che, specialmente in quel che resta comunque un prodotto ben fatto e godibile, risultano sempre sgradevoli, o sull’eccessivo peso dato alla conversione di Baggio, espediente retorico atto a sottolineare i passaggi più romanzati delle storia, ma sarebbero piccolezze. La realtà è che la pellicola di Letizia Lamartire ha un unico difetto imputabile, imperdonabile dal momento in cui “Il divin codino” ha debuttato su Netflix, una piattaforma che ha monopolizzato il mercato con le serie televisive. La vita non è una partita di calcio e la storia di Baggio è troppo grande per essere raccontata in 90 minuti, siano essi di un film o una partita di pallone. Avrebbe decisamente meritato un racconto a puntate.

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