Art
di Sandro Giorello 9 Febbraio 2016

Le opere alienate e bellissime di Alessio De Vecchi

Tra sogno e incubo, i lavori del designer italiano superano ogni immaginazione

de-vecchi Instagram - Alessio De Vecchi

 

Alessio De Vecchi è un designer italiano dall’immaginazione sconfinata. I suoi lavori sono un complicato mix di figure geometriche quasi spaziali, paesaggi naturali e oggetti comuni inseriti con forza. Il tutto ha un vago sapore dadaista. Nonostante sia ancora ben lontano dai quaranta, Alessio ha già una lunga carriera alle spalle: nel 2004 esordisce nello studio di Fabio Novembre, poi, dieci anni fa, si sposta a New York per collaborare con Karim Rashid. Ora lavora come freelance a Tokyo.

Fin da piccolo ho questa visione di me sovrastato da una giungla di cemento e infrastrutture digitali” – commenta De Vecchi – “Una visione piuttosto scura, distopica. Sono stato sempre affascinato dalle metropoli non a grandezza d’uomo, da dimensioni di alienazione urbana. Le atmosfere di film come Blade Runner e Strange Days hanno sicuramente definito il mio immaginario. Il bisogno di immergermi in queste dimensioni mi ha portato nel 2006 a New York e mi porta oggi a Tokyo. Trovo che alienazione e solitudine siano per molti versi d’ispirazione”.

Uno degli aspetti che colpisce subito nei tuoi lavori è il rapporto tra figure geometriche tridimensionali – apparentemente asettiche e fredde – in mezzo a scenari decisamente più naturali. Che tipo di contrasto vuoi ottenere?

La natura nei miei lavori rappresenta probabilmente il bisogno di liberarsi – di tanto in tanto – da quella alienazione. New York, ma soprattutto Tokyo, sono realtà urbane molto dense, soffocanti per certi versi. Ironicamente, proprio attraverso la tecnologia – dna della mia professione – che mi attanaglia quotidianamente, riesco ad aprire un varco verso gli spazi ampi e aperti, il verde, l’ossigeno.

 

Schermata-2016-02-09-alle-13.08.49 Instagram - Alessio De Vecchi

 

Si può leggere un retrogusto scientifico nelle tue opere?

Non credo che scientifico sia la parola più adatta. O, quantomeno, non penso sia un elemento troppo palese nel mio lavoro. Sicuramente esiste come elemento invisibile, sottinteso, come collante in un mondo surreale. É piuttosto l’elemento architettonico ad interessarmi. Il rapporto di continuità o discontinuità tra il geometrico e l’organico. L’architettura giapponese è stata sicuramente l’influenza fondante; in particolare il movimento metabolista degli anni ’60 (Kenzo Tange e Kisho Kurokawa) ma anche il lavoro più recente di Tadao Ando e Toyo Ito. Sicuramente discende da qui il contrasto, di cui parlavi prima, tra volumi più asettici e l’ambientazione in cui sono collocati. Non credo, però, sia necessariamente un contrasto: vedo continuità nella coesistenza di volumi primitivi (sfere, cubi) e l’organicità dell’ambiente circostante. L’utilizzo del fuori scala, della contrapposizione dimensionale, è un’ulteriore prova di quanto, seppur esista spesso un elemento protagonista e centrale, sussista anche una coesistenza organica dell’insieme.

 

 

Tra video e immagini fisse cosa ti dà più soddisfazione?

Penso che la fissità si adatti meglio ai soggetti che su cui sto lavorando di recente. Ad ogni modo l’animazione, soprattutto in forma di loop (di nuovo, alienazione), può essere altrettanto potente. Ed è infatti il concetto di loop su cui sto preparando la mia prima mostra in assoluto qui a Tokyo.

 

 

Le tue opere si muovono più in un immaginario da sogno o più in un mondo spaziale/alieno?

Penso che la dimensione aliena e onirica si incrocino nel mio lavoro. Tu hai usato la parola sogno. In tanti la percepiscono con accezione positiva, ma segretamente quasi tutte le opere contengono un distillato d’incubo. La ricetta è certamente l’incubo con una spolverata di alieno/alienazione.

FONTE |  advcollective.com

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