Smettiamo di far diventare famose le persone stupide

Siamo sicuri che condividere volti di assassini fino a farli diventare famosi, migliori in qualche modo la società?

Stop Making Stupid People Famous è una frase diventata simbolo della lotta al post modernismo con tutti i suoi vizi, tra cui quello di contare come valore il quoziente di apparizione, ospitata, riproducibilità dell’immagine. In paroloni: se la tua faccia si vede così tanto in giro significa che sei famoso, e se sei famoso, significa che voglio diventare come te. Anche se sei uno stupido.

Può capitare a un trapper che va a mille su una macchina mentre fa la diretta sul social e poi fa un incidente, alla signora intervistata in spiaggia e resa famosa per la sua ignoranza in materia sanitaria e grammaticale, a quattro assassini palestrati che sembrano tronisti presi da Gomorra, a un aspirante vip che frequenta la discoteca in Sardegna e scrive ai suoi follower che sono invidiosi perché l’unica cosa che si potrebbero permettere lì sarebbe il Covid, al carabiniere che spaccia e si comporta da gangster, al politico che fomenta l’odio razziale sparandola ogni giorno più grossa, e la lista potrebbe non finire mai.

Cos’hanno tutti questi soggetti in comune tra loro? Apparentemente niente, e di certo non si possono confrontare i loro torti contro la società, l’etica e la morale.  In una cosa sono identici: i loro volti sono diventati famosi grazie alla condivisione social. Una condivisione spesso volta a ottenere un effetto denigratorio, di condanna o di forca, che tira fuori nei commenti del popolo, i più bassi istinti. Alla fine della campagna d’odio, rimane una sola cosa: la loro faccia è diventata celebre, molto di più di quella delle persone che tentano di migliorare la vita delle persone. 

Sputare bile sotto la foto di alcuni assassini, descrivendo con dovizia di particolari tutte le torture dell’Alto Medioevo che dovrebbero essere loro inflitte, non migliora in alcun modo la società, anzi: non è detto che, in caso di buona condotta e di reintegro anzitempo tra noi per buona condotta o magheggi di avvocati, quei soggetti non siano chiamati per un’ospitata in un programma seguitissimo di sciacallaggio mediatico sistematico, grazie anche al nostro contributo di diffusione della loro immagine.

Rendendo famosi i volti degli assassini, condividendoli un milione di volte sul social fino a farli diventare indelebili, memorabili, passibili di imitazione, perché il male è banale e, se serve per farti diventare famoso, non sembra neanche così brutto. Il culto dell’ignoranza, del tutto e subito, dei metodi mafiosi, della forza sopra l’intelligenza, del terrore, sta facendo sempre più parte di questa nuova normalità, e il brutto, e il cattivo hanno sempre più visibilità del buono. Lo sappiamo bene, perché leggiamo i numeri: quando parliamo di ambiente o di arte, ci seguite in pochi, quando inneschiamo una polemica su un argomento d’attualità, piovete a temporale sulla pagina.

È il meccanismo di chi non riesce a non rallentare di fronte a un incidente stradale, per captare qualche particolare morboso, nonostante ne sia ripugnato, un classico, niente di nuovo. Però, senza troppa retorica, pare chiaro che non sia andato esattamente tutto bene nel mondo all’epoca del Covid, e forse non abbiamo tutto il tempo che pensiamo, per migliorare le cose, prima di venire risucchiati da un futuro affascinante solo nei film, in Mad Max o in Ken il Guerriero, meno quando lo si vive in prima persona, quando si contribuisce ad abbrutirlo invece di diffondere bellezza.

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