TV e Cinema
di Mattia Nesto 18 Luglio 2016

5 motivi per cui Panarea è il film dell’estate definitivo

Il capolavoro del trash estivo ha quasi vent’anni: ed è sempre orrendo e meraviglioso come una volta

Era il 1997 e mentre i più attenti di noi si stavano lambiccando il cervello attorno ai mille riferimenti, citazioni e influenze di Ok Computer dei Radiohead, in Italia usciva un film destinato ad avere, nell’immediato del botteghino, uno scarsissimo successo, ma che poi diventerà un vero e proprio film di cult.

Mi riferisco a Panarea, ultimo film diretto da Pipolo, alias Giuseppe Moccia, uno dei più importanti sceneggiatori italiani (metà della leggendaria coppia Castellano & Pipolo) nonché illustre padre del, ahilui, non altrettanto illustre scrittore Federico Moccia. Panarea, titolo preso dall’omonima isola delle Eolie in Sicilia, è il classico racconto estivo a metà strada tra l’avventura boccaccesca di paese e il bildungsroman / romanzo di formazione all’acqua di rose.

La vicenda è presto detta: un gruppo di ragazze e ragazzi, interpretati da attori tutti all’esordio cinematografico (e si vede) alle prese con la movida (ho usato questa parola ed ora, tutti insieme, rabbrividiamo) e con i mille flirt che possono nascere in quest’isola fatata. Se uno scorre le recensione dei principali quotidiani immediatamente successivi all’uscita del film, il voto unanime è più vicino ad un rotondo 3 che ad uno scarso 4.

Panarea film 1997  La locandina dell’immortale capolavoro

Ad esempio su Il Messaggero del 13 gennaio 1997, nell’articolo a firma di Fabio Bo, si legge: “Per chi è felice con poco (cinema), per chi, infreddolito, sogna sole e mare, per chi rimpiange le commedie balneari degli anni Sessanta, per chi non si pone troppi interrogativi sullo stato della nostra industria cinematografica, può bastare. Quel che avanza è poca cosa”.

Tuttavia, nonostante il giudizio di Bo e degli altri critici cinematografici nostrani, il film, anche a causa dei puntuali passaggi sulle reti Mediaset (almeno una volta all’anno Italia1), Panarea è diventato un film di culto e, in ultima analisi, il film dell’estate definitivo.

Almeno di un certo modo di pensare e vivere l’estate in Italia. Qui sotto vi elenco cinque motivi a sostegno di ciò.

L’isola

Scordatevi le brutture architettoniche anni sessanta e settanta di Cortina o le cafonate di una Montecarlo dietro l’angolo, o peggio ancora, gli esotismi anni ’00 dei film dei cinepanettoni firmati dai Vanzina.

L’isola di Panarea nel film si presenta per quello che era negli anni novanta: un atollo centrale per il divertimento vacanziero, specialmente giovane, con un gradiente di club-culturer e, perché no, sana libertà sessuale difficilmente riscontrabile in altri lidi del Paese.

Infatti, in una specie di Ibiza casareccia o di Mykonos nostrana, nel racconto di Pipolo l’isola delle Eolie pare essere, senza soluzione di continuità, un’immensa distesa di ville e villette, inframmezzate qua e là da una popolazione indigena abbastanza “ostile” con i locali (più per finta che realmente) e, soprattutto, con qua e là le classiche discoteche del periodo.

Discoteche a tema, cioè che presentavano un mood per i clienti. Per esempio in una di queste, il tema è quello piratesco. Indi per cui il dj (che ancora, si badi bene, si chiamava disk-jockey) è un pirata pelato con la bandana e invece di cubiste e ballerini ci sono schiavi che spingono una nave di cemento e polistirolo e filibustiere vestite in latex.

 

Il Dogui

Se Panarea è quasi interamente interpretato da un gruppo di attori all’esordio sul grande schermo, è pur vero anche vi sono interpreti più navigati che fanno un po’ da chioccia.

Tra di essi spicca Guido Nicheli, il mitico Dogui caratterista di tanti film amati, amatissimi degli anni ottanta. In questo film incarna, neanche a dirlo, il classico imprenditore milanese che ha preso una villa immensa sull’isola di Panarea per passarci le vacanze. È padre di Giorgio, un ragazzo timido ed imbranato con le donne, un po’ ciula, diremmo a Milano.

Il Dogui, costretto a tornare a Milano per un contrattempo sul lavoro in un celeberrimo monologo istruisce il figliolo e il maggiordomo (un locale che, nelle intenzioni degli autori, avrebbe dovuto ricordare una sorta di Fiorello-bis) sulle regole di comportamento da tenersi in casa.

Neanche a dirlo i giovani non le rispetteranno ma l’importante non è questo. La cosa sublime è sentire il Dogui dire: “No camminare con le scarpe sul cotto perché si riga il cotto. Nada scarpe”. Più chiaro di così!

 

La colonna sonora

Scorrendo rapidamente la colonna sonora di Panarea sorge immediatamente un dato agli occhi, ovvero come sia un reale concentrato di buona parte della musica dance di maggior successo di quegli anni.

In un uno strano mix per cui agli immancabili Los Servillos, autori de La Macarena, si accompagna un, francamente spaesato, Niccolò Fabi con Dica, la selezione musicale è tutta o quasi  spagnoleggiante con anche qualche pezzo storico come Without You dei Blizzard.

Completano la selezione canzoni come La Hamaquita di Fernando Villalona, la tamarissima Esa negra quiere un macho del Grupo Verano ed, infine, come non citare Give me to a break di Joy Salinas, uno degli episodi più fortunati della tarda italo-dance di quel tempo.

Insomma la colonna sonora di Panarea è la quintessenza, dal punto di vista, per così dire, filologico e filosofico delle Hit Mania Dance Vol.1,2,3,… di là a venire. E oggi che ci vestiamo come allora, con i pantaloni a vita alta, i colori acidi, il cappellino girato al contrario e scopriamo l’ombelico, queste canzoni sono più attuali che mai.

 

I telefoni a gettoni

Non c’è uno studio o qualche pubblicazione su questo tema ma, con tutta probabilità, Panarea è uno degli ultimi film in cui per invitare fuori una ragazza si doveva – in mancanza di un telefono nella propria stanza o abitazione – affidarsi a una cabina telefonica.

Infatti in più punti del film si vedono i novelli Bronzi di Riace chiamare, con fare speranzoso, alla pensione per cercare di rintracciare la bella di turno.

Per come siamo abituati oggi, queste scene assumono il fascino della preistoria con i telefoni massicci, la plastica rossa e la cornetta nera che tanti di noi in quegli anni impugnavano con un misto di vergogna, attesa e palpitazione. Panarea ci racconta quando ancora l’estate italiana non era tutta da mordere ma, è il caso di dirlo, da agguantare.

 

Alessia Merz

Alessia Merz è, lo possiamo dire senza paura di essere smentiti, una delle regine della fine degli anni novanta nonché sogno, più o meno velatamente erotico, di una masnada di maschi italiani dal 1995 ad, almeno, la fine degli anni Duemila. Iniziata la carriera, come tante (tutte?) in Non è la Rai, la notorietà arrivò ben presto quando Antonio Ricci la chiamò sul bancone di Striscia la Notizia, assieme all’altra “creatura” di Gianni Boncompagni Cristina Quaranta, come velina.

Da qui la carriera di Alessia Merz decolla: non c’era programma televisivo che non la volesse avere, da Quelli che il Calcio a Meteore ed anche al cinema le parti cominciarono ad arrivare. L’esordio fu con I Ragazzi della Notte, un dimenticabile film sulla vita notturna intorno al Lago di Garda (regia di Jerry Calà, si va sul sicuro) e poi la doppietta che la consacrò nell’immaginario erotico italiano: Panarea giustappunto e, l’anno successivo, Jolly Blu, il film degli 883.

Se per Jolly Blu Alessia Merz strappò la parte a, udite udite, Angelina Jolie, ritenuta troppo sensuale in Panarea si può ammirare la ragazza nata a Trento in tutta la sua bellezza. Fisico atletico, pelle ambrata e un paio di occhi verdi che non lasciano scampo.

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