TV e Cinema
di Simone Stefanini 4 Settembre 2017

Il finale di Twin Peaks, assurdo come la vita vera

Niente è come sembra. Abbiamo visto il finale della terza stagione di Twin Peaks, in una strana diretta notturna, che ci ha lasciato i brividi anche al mattino. Contiene SPOILER

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Devo scrivere e devo farlo ora, nonostante abbia dormito 4 ore scarse per aver assistito alla diretta notturna del finale in due parti di Twin Peaks – The Return, la terza stagione interamente girata da David Lynch 25 anni dopo l’originale.

Stavolta niente fenomeno di massa, la visione in diretta della serie non è stata un successo per Showtime (ma si è rivelata un boom di nuovi abbonati) e, mentre negli USA giornalmente escono articoli di approfondimento, qui in Italia, dopo la grande pubblicità iniziale, la serie è stata snobbata dalla critica e dagli spettatori generalisti, appellata senza appello come priva di trama, inutile, troppo lenta, opera di un uomo senile.

Non tutto il male viene per nuocere, la devono pensare così i fan totali, quelli dello zoccolo duro che reputano David Lynch uno dei più grandi artisti viventi e dei quali faccio fieramente parte, senza se e senza ma. Stavolta Twin Peaks è per loro, per quelli che non ci dormono la notte, che vivisezionano ogni immagine di ogni episodio alla ricerca di indizi  per venire a capo del mistero. L’hanno chiesta a gran voce e difesa da tutti gli attacchi, pur di entrare un’altra volta coi panni e tutto nel sogno.

 

 

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Quelli che hanno creato gruppi Facebook segreti con una politica rigorosissima anti spoiler come Twin Peaks 2017 Italia o Club Silencio, che quando hanno un momento libero si scambiano messaggi in chat, talmente allucinanti da diventare anch’essi potenziale indagine dell’FBI. Parlano in codice, si eccitano quando una delle loro tante teorie si rivela fondata, godono fisicamente quando uno dei loro personaggi preferiti fa la prima apparizione.

A occhio esterno possono (possiamo) sembrare invasati, ed è così. D’altra parte David Lynch fa il miglior fan service da sempre, semplicemente evitando di farlo. Un esempio: nel suo nuovo Twin Peaks, gli effetti speciali sembrano venir fuori da un giochino per Playstation 2. Li vedessimo in una qualsiasi delle altre serie tv, saremmo assolutamente schifati. Nel lavoro fotograficamente evocativo di Lynch invece, contribuiscono a formare quel senso di astrazione surreale, di smarrimento e di pittura in movimento che ha sempre fatto parte della sua poetica, fin dai primi cortometraggi.

 

 

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QUI INIZIANO GLI SPOILER.
SE NON AVETE VISTO TWIN PEAKS – THE RETURN FINO ALLA PARTE 16, SIETE PREGATI DI ABBANDONARE LA PAGINA

 

Twin Peaks – The Return, per 16 episodi ha narrato principalmente la storia dell’agente FBI Dale Cooper (uno straordinario Kyle MacLachlan, che merita una pioggia di Emmy) e del suo viaggio surreale per tornare alla sua casa d’adozione, Twin Peaks. Non un road movie di certo, dal momento che Cooper, reduce dalla visita alla Loggia Nera alla fine della seconda stagione, vi è rimasto intrappolato per 25 anni, mentre fuori il suo doppio cattivissimo commetteva ogni genere di nefandezza. Quando finalmente riesce a uscire dalla Loggia, durante il trasferimento che avviene per mezzo dell’elettricità, perde quasi tutta la propria coscienza e, per 16 ore di serie tv, diventa Dougie Jones, un manufatto che in teoria sarebbe servito per riportare il Cooper cattivo dentro la Loggia e che invece si fa protagonista di tutta la narrazione. Un personaggio a metà tra il Dustin Hoffman di Rain Man e il Peter Sellers di Oltre il giardino. Imbambolato, ripete solo l’ultima parte delle domande che gli vengono poste, eppure ha un dono e riesce a farsi amare da molte persone.

 

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Di contorno alla trama principale, un milione di sottotrame che sono propedeutiche allo sguardo d’insieme, di un mondo devastato dalla violenza per futili motivi, in cui il mix tutto particolare di soap opera e thriller psicologico delle prime due stagioni ha lasciato il passo a un moderno procedural, gelido come la pelle di un cadavere, immerso in un fiume di paranormale, con sorprendenti momenti comici e scene splatter che fanno rivoltare lo stomaco. In tv, in prima serata.

Alla fine di quasi tutti gli episodi, band di livello internazionale si esibiscono sul palco del Roadhouse, rendendo il tutto ancora più inverosimile. Chromatics, Nine Inch Nails, Au Revoir Simone sono tra i nomi più intensi di questi musicarelli sinistri su un palco di provincia, su cui scorrono i titoli di coda assolutamente importanti per capire l’identità di molti personaggi.

 

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Della nuova serie infatti fanno parte 217 attori, tra appartenenti al vecchio cast e nuove entrate, in cui spiccano alcuni molto famosi: Tim Roth, Laura Dern, Naomi Watts, Jim Belushi, giusto quelli più eclatanti.

Nel bel mezzo della narrazione già spezzata di suo, l’episodio 8, un instant classic. Un mediometraggio sulla nascita del male, talmente metafisico e sperimentale che in Italia, se non fosse stato targato David Lynch, l’avrebbe trasmesso solo Enrico Ghezzi su Fuori Orario in piena notte.

Durante l’episodio 16, Cooper reduce dal coma si sveglia e torna se stesso, mentre Audrey Horne sembra intrappolata in una dimensione estranea a quella reale, anche se parlare di realtà a Twin Peaks ha davvero poco senso. Eddie Vedder canta una canzone che parla proprio di sdoppiamento e di malinconia, Audrey danza, la lacrima scende, proprio come quando Lynch dedica in un episodio precedente una scena da magone alla Signora Ceppo, malata terminale nella finzione e nella vita vera, morta di lì a poco.

 

QUI INIZIANO GLI SPOILER DEL FINALE DI TWIN PEAKS – THE RETURN.
SE NON LO AVETE ANCORA VISTO SIETE PREGATI DI ABBANDONARE LA PAGINA

 

 

Con queste premesse, ci siamo apprestati a seguire il finale di due ore che teoricamente avrebbe dovuto rispondere a tutti i nostri dubbi. Che stolti, solo ad averlo pensato.

La parte 17 sembrava propendere per la risoluzione classica: scontro bene vs. male, il male perde a son di pugni soprannaturali, Dale Cooper torna a Twin Peaks, Bad Cooper torna per sempre nella Loggia Nera e vissero tutti felici e contenti. Ehm, no. Ci sono in ballo altre 4876093847 storie lasciate in sospeso, numeri da ricordare, dobbiamo capire dov’è Audrey, che crimine ha commesso Becky, la figlia di Shelley, cosa è diventata Sarah Palmer, chi sono Billy e Tina e tutti gli altri personaggi sentiti solo nominare, chi sono realmente Linda e Richard, e sono solo le prime cose che mi vengono in mente ora. Fortunatamente, abbiamo già avuto un lieto fine: Dougie (creato di nuovo) che ritorna da Janey E. e Sonny Jim, la famiglia disfunzionale perfetta.

 

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In un’ora di tempo, sembra impossibile rispondere a tutti i quesiti, che infatti vengono bypassati bellamente per farci addentrare nella questione che assilla Dale Cooper da 25 anni: riuscire a salvare Laura Palmer.

Qui, David Lynch fa una cosa mai vista in tv: con un espediente astratto fa entrare il suo personaggio preferito, Coop, all’interno dei suoi due lavori preferiti riguardo Twin Peaks: il pilota della prima stagione e il film prequel, Fuoco cammina con me. Cooper del 2017 spia Laura degli anni ’90, lei lo vede e urla. Possibile che Lynch avesse in mente tutto fin dall’inizio? La prende per mano e la porta davanti ai sicomori della Loggia Nera, ma la perde nella foresta (forse attratta da Judy, un’immensa forza maligna) e intanto in casa Palmer c’è una scena talmente spaventosa che non riesco a descriverla. Sarah Palmer è la Mother, l’Esperimento, il male incarnato. È cosa ha provato, è cosa è diventata dopo esser stata sedata dal marito e non aver sentito le grida della figlia mentre veniva violentata.

 

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Laura non è mai morta, forse non è neanche mai esistita, è stata solo perduta tra le trame spazio temporali di questo salvataggio non riuscito e il pilot del 1990, reinventato, mostra Pete Martell che esce di casa, non trova la ragazza (She’s dead, wrapped in plastic) e se ne va beato a pescare. Il passato è cambiato del tutto. David Lynch è il sognatore che sogna e vive nel suo sogno, gioca con il tempo e con lo spazio, assoluto padrone di un mondo dalle regole ferree, eppure praticamente indecifrabili.

Dopo aver girovagato nella Loggia Nera da solo, Coop incontra il padre di Laura Palmer, Leland, che gli chiede di andare a cercare la figlia. Dale Cooper insieme a Diane (un personaggio chiave, interpretato dalla magnifica Laura Dern), entrano in una dimensione più reale della finzione. Cooper ora non è il risoluto agente dell’FBI che conosciamo, ma neanche lo spietato killer Mr. C, è una via di mezzo, una persona quasi normale. Dopo aver fatto sesso con Diane (ma chi è veramente?) senza alcun trasporto, si sveglia con un nuovo nome, Richard, una nuova auto e va alla ricerca di Laura. Trova indizi in una tavola calda (Judy, ma non possiamo parlare di Judy), bussa alla porta. Chi apre, è proprio Laura Palmer, ma si chiama Carrie Paige, non conosce Twin Peaks né la famiglia Palmer e da quanto possiamo vedere, la vita non le ha sorriso troppo. È il risultato di ciò che è andato storto nel tentativo di salvare Laura. Dale la vuole portare a casa e lei accetta di buon grado, anche perché in soggiorno ha un cadavere fresco e il soprammobile di un cavallo bianco. I due intraprendono un lungo viaggio in auto nella notte, si fermano a una pompa di benzina (Convenient Store?)  e giungono a Twin Peaks, di fronte a casa di Sarah. Teniamo presente che in questa realtà, Dale Cooper è il nostro sguardo, l’unico ad avere un quadro d’insieme di Twin Peaks così come la conosciamo. Tutto il resto intorno a lui è cambiato.

 

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Intorno, sembra quasi la realtà, è maledettamente simile alla realtà, senza paranormale, senza stanze rosse, giganti, nani, boscaioli che devono accendere sigarette, guanti verdi fotonici, senza Bob, solo con l’assurda violenza della vita reale. Un attimo: e se tutta l’epica di Twin Peaks, tre stagioni in tv, un film e svariati libri fossero stati un sogno? Se questa fosse la verità, un po’ come avviene nell’ultima mezz’ora di Mulholland Drive?

Troppo facile. In Strade Perdute, DL ci spiega che una persona sbagliata, lo è in qualsiasi contesto la si metta, qualunque maschera indossi.

Coop e Laura/Carrie suonano alla porta di casa Palmer, ma apre una donna mai vista prima. Sono quasi le quattro del mattino, mi batte il cuore veloce come quello di un agnello al macello e la fine di Twin Peaks è vicina, ma la soluzione dell’enigma non la si vede neanche col binocolo cattivo di Jerry Horne.

Dopo aver parlato, la signora misteriosa chiude la porta, Coop e Carrie si guardano, lui sembra stranito. Chiede “In che anno siamo?”, dalla finestra di casa si sente una voce, simile a quella di Sarah Palmer, urlare il nome di Laura, Carrie grida. Sipario, fine.

 

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Che cazzo ho appena visto? Sono andato a letto senza riuscire a dormire, in mentre troppe informazioni e poi Sheryl Lee che urla è la cosa che mi fa più paura al mondo. Stamattina ho scoperto che l’attrice che interpreta la donna che abita in casa Palmer è la padrona di quella casa nella vita vera. La quarta parete è stata sfondata. Mi scoppia il cervello.

Se fosse tutto un sogno di Laura Palmer, che in questo modo riesce a non morire di shock per il crimine subito per mano del suo stesso padre, mentre sua madre era sedata? Se quello che Laura/Carrie sente dalla finestra non fosse la voce della madre ma (occhio questa è grossa) la diretta del primo episodio di Twin Peaks nella realtà del 1990? Si spiegherebbe la domanda di Cooper.

Ho davvero visto l’inizio di Twin Peaks senza Laura Palmer morta? Ho davvero visto Dale e Laura in pieno metacinema che escono dalla serie tv ed entrano nella realtà, che però non è la realtà che noi conosciamo (altrimenti Carrie si chiamerebbe Sheryl)? Dale Cooper ha tentato di salvare Laura, ma lei non può essere salvata dal suo destino, come tutti noi.

Cosa abbiamo visto? Un’opera d’arte. Un esperimento in grande scala che si può permettere solo un grande artista, che ha una carriera tale da poter impugnare il coltello dalla parte del manico davanti ai produttori di una tv via cavo e lottare fino ad avere la libertà assoluta di giocare come vuole con l’universo che ha inventato, senza nessuna ingerenza da parte degli attori (che non hanno neanche potuto leggere l’intera sceneggiatura) o dalla pressione dei fan.

Non solo: una riflessione sul mondo contemporaneo, sulla tecnologia sempre presente ma mai determinante, sul significato stesso della retromania: non si può tornare indietro e anche se potessimo, niente sarebbe come nei nostri ricordi.

 

 

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Il regista senza il quale la metà della produzione seriale odierna non sarebbe stata possibile (lo dicono Damon Lindeloff e J. J. Abrams, non io) è andato direttamente al cuore della storia e l’ha immaginata diversa, ha tentato di infondere luce dove c’è sempre stato il  buio più tenebroso, perché anche se Laura Palmer è diventata icona pop, si parla sempre di una teenager stuprata e uccisa dal padre, almeno all’apparenza. Non si può dimenticare un’esperienza del genere, neanche reinventandosi un’altra vita in un’altra dimensione.

A pensarci ho ancora i brividi. Twin Peaks, anche nel 2017, è un’esperienza innovativa, non una semplice serie tv. Ha dato dato una nuova possibilità al postmodernismo, cambiando le regole del gioco.  È stata per pochi, non cambierà l’industria dell’intrattenimento come ha fatto nei 90s, non è possibile rivivere due volte la stessa storia e Laura Palmer lo sa bene.

Il suo grido risuonerà per giorni nelle nostre orecchie, giusto un momento prima di andare a dormire, proprio come quando eravamo 25 anni più giovani. Tutto è cambiato, niente è a posto, può succedere qualsiasi cosa. Ecco perché amiamo Twin Peaks: pur distante anni luce dalla realtà, parla della nostra assurda e commovente vita reale.

 

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