TV e Cinema
di Simone Stefanini 30 Ottobre 2017

Stranger Things 2 è il sequel perfetto

La nostra recensione della seconda stagione di Stranger Things, dal 27 ottobre su Netflix

CONTIENE SPOILER SULLA SECONDA STAGIONE DI STRANGER THINGS

Negli anni ’80, ormai pluridecorati alla carriera, quando un film funzionava, il sequel era d’obbligo e cambiava il titolo del film originale: Rocky diventava Rocky 1, così come Rambo, Ritorno al futuro, Ghostbusters e tutti gli altri milioni. Nelle serie tv non ci sono i sequel, casomai le seconde stagioni, eppure durante le interviste di Oltre Stranger Things (su Netflix), i Duffer Brothers (ideatori) e Shawn Levy (produttore) parlano di Stranger Things 2 come di un sequel, ed è un punto di partenza ottimo per fare un’analisi.

Un sequel per sua stessa natura punta ad avere più successo, a essere più grande e in alcuni casi addirittura più bello del film originale, si pensi a Terminator 2 per fare un esempio eclatante. Il caso di Stranger Things 2, la serie uscita su Netflix il 27 ottobre che molti fan hanno visto tutta d’un fiato (9 episodi) durante il weekend pre-Halloween.

Stranger Things è Terminator 2, si fa carico delle aspettative della prima sorprendente stagione e aggiunge nuovi personaggi, nuova trama, nuovi mostri, nuove citazioni, nuova musica, nuove idee, portando a casa un successo a livello produttivo, narrativo e di hype.

Quei bravi ragazzi

I giovani attori sono ancora più bravi, Millie Bobby Brown (11/Jane) e Noah Schnapp (Will) su tutti, svettano per le complessità emotive con cui dovranno avere a che fare per tutta la stagione, con la sofferenza portata all’esasperazione. Tutti gli altri si riconfermano bravi nelle nuove storyline: la solitudine di Finn Wolfhard (Mike) che si trova a vivere senza 11, la storia d’amore tra Caleb McLaughling (Lucas) e il nuovo innesto nel gruppo, la disadattata Max interpretata da Sadie Sink, l’eroico affetto di Gaten Matarazzo nei confronti di Dart, un cucciolo alieno che diventa un Demo-cane molto cattivo (storia che sembra citare Il racconto dei racconti di Matteo Garrone). Stazionarie le interpretazioni di Winona Ryder che pora stella piange sempre, un gradino superiore il sempre emotivamente pettoruto David Harbour (Jim Hopper), ottimo il nuovo innesto di Sean Astin (Bob), che prima di fare una finaccia, impersona il nerd che riesce a compiere due atti eroici: salvare la vita dei suoi amici e bombare Winona Ryder. Menzioni di merito a Dacre Montgomery (Billy) che ci rende molto bene lo stereotipo del cattivo e ribelle degli ’80s, col mullet e il metal, ma soprattutto del grande caratterista Brett Gelman (Murray Bauman), che nell’ultimo paio d’anni ha recitato anche in Twin Peaks, Love, Fleabag e che dà vita a un giornalista complottista stralunato ma geniale.

 

I nuovi mostri

Se pensavate che nella prima serie il Demogorgone fosse il più cattivo tra i mostri che spuntano fuori da Dungeons & Dragons, è perché non avevate ancora visto il Mind Flayer (Illithid), il mostro ombra che si impossessa delle altre creature e che ne spia il cervello. Un orrore cosmico, lovecraftiano, di difficile comprensione eppure ancora più sinistro, che mette a dura prova la salute psicofisica del povero Will, martire predestinato fin dall’episodio uno della stagione uno. Un presagio di morte che ancora aleggia nel Sotto sopra e che dovrà essere sconfitto definitivamente nelle prossime stagioni.

 

I wanna rock

La colonna sonora di Stranger Things è iconica di suo, tutta concettualmente virata verso i synth di Kyle Dixon & Michael Stein, che anche in questa stagione si dimostrano all’altezza delle immagini, confezionando un pacchetto ideale. Riguardo le canzoni scelte per il sequel, il rockettaro bullo serve da pretesto per introdurre un bel po’ di hair metal d’annata, tra Ratt, Motley Crue e Bon Jovi quando si truccava. Il risultato è una compilation sul meglio e il peggio del 1984 nella provincia americana, in cui il massimo della ribellione era qualche birra, una macchina fiammante e un bel po’ di chitarre taglienti che escono dall’autoradio.

 

Il settimo episodio

Nell’episodio numero 7, per la prima volta vediamo il mondo al di fuori di Hawkins e seguiamo le peripezie di 11 alla ricerca della sorella scomparsa. Un pretestone per imbastire scene urbane degne del Carpenter di 1997 Fuga da New York e una storyline da X-Men imparentati con Lady Vendetta. A molti critici non è piaciuta, forzata dicono, ma niente che inizi con Runaway di Bon Jovi può essere davvero brutto, e uno spin off della squadra di punk sovversivi mutanti ce lo godremmo proprio.

 

E ora?

Dopo il finale, un po’ di desideri, appunti e critiche assortite: amici Duffer, nella stagione 3, non fate più soffrire Will e sua madre, che altri episodi a vedere quel povero ragazzino abusato dagli alieni e Winona che piange e basta (tra l’altro dose rincarata dalla vedovanza che si deve accollare nella stagione 2) non ce la facciamo fisicamente. Siate coraggiosi e date a Dustin una ragazza, che diventi il paladino delle bellezze alternative e dio santo fate vivere un paio di giorni di serenità a 11 e Mike, che Paolo e Francesca l’abbiamo già studiato alle medie. Anche Nancy, che si decida una volta per tutte e se Steve è ormai inutile, abbiano il coraggio di toglierlo dalla storia, che far fare cose sensate a 15 personaggi principali tutti più o meno adolescenti non sarà cosa facile. Dopo Sean Astin sarà il momento di vecchie glorie come Molly Ringwald e Corey Feldman?

 

La fine non è la fine

Stranger Things è dotata del potere catartico di riuscire ad essere allo stesso tempo la più grande furbata mai concepita da mente umana e una serie che ti tiene col fiato sospeso, perfetta in ogni aspetto della produzione, con un’anima e un cuore pulsante. In quel macroverso che chiameremo gli anni ’80 visti dai trentenni del 2017, gli adulti non sono solo cattivi come nella trasposizione di IT di Muschietti, da tirare in ballo per forza come figlia dell’hype generato da Stranger Things ma che non regge il confronto, ha l’anima giusta per riempirci un palloncino e niente più. Nel mondo dei Duffer, tutti i personaggi principali sono in qualche modo emarginati, e diventano automaticamente le icone pop di tutti quelli che hanno avuto una vita di merda, sia a scuola, sia dopo, quando le cose si fanno ancora più dure. Che i mostri vengano dal manuale di un gioco di ruolo, simbolo assoluto della nicchia, antenato creatore della filter bubble, della società segreta dei suoi giocatori non a proprio agio col mondo esterno, è un po’ la parabola dei gemelli Duffer, che da piccoli comunicavano solo tra di loro, escludendo il resto del mondo e che per questo motivo sono stati bocciati all’asilo. Una storia che sembra venir fuori d Stranger Things, non è vero?

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